2 AGOSTO. Si celebra la Festa del Perdono, l’indulgenza che san Francesco chiese a Dio per tutti coloro che, confessati e comunicati, si fossero recati in pellegrinaggio alla Porziuncola

Cambiare vita, dono di Dio

p align=”justify”Qualche persona anziana ricorda i tempi in cui il Perdono di Assisi era una grande festa che durava parecchi giorni e si caricava di manifestazioni folcloristiche. Oggi avviene in termini più sobri. Si va all’essenziale, che non è neppure quello di prendere un’indulgenza. La gente punta diritto ai confessionali e fa la fila per confessarsi. In questi giorni, chi visita la basilica di Santa Maria degli Angeli, non avverte che vi sia una crisi del sacramento della penitenza. Sentirsi in pace con Dio è e rimane una delle esperienze più forti e delle esigenze più profonde dei credenti anche di religioni diverse. Lo ha ripetuto nei giorni scorsi il rabbino di Milano Giuseppe Laras, nella giornata di apertura del Convegno del Sae a Chianciano (25 luglio). Egli ha detto che uno dei valori comuni alle religioni che hanno origine dalla fede di Abramo (Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo) è la penitenza, intesa come possibilità di cambiare vita, di fare ritorno da una situazione negativa, poter rimediare ad un errore e ad un delitto compiuto. Avere la possibilità di non trovarsi in un vicolo cieco, una strada di non ritorno, bloccata, irreversibile, che sarebbe deterministicamente negatrice della libertà. Questo ha detto il rabbino e, per contrasto, ha fatto l’esempio tragico del faraone d’Egitto di cui parla l’Esodo, che aveva il cuore “indurito”, era divenuto, cioè, incapace di ravvedersi, legato caparbiamente ad un disegno dispotico e violento, schiavo di se stesso e del suo orgoglio. Il pensiero ebraico è la radice del pensiero cristiano che accentua, se ce ne fosse bisogno, la confidenza in Dio, per la rivelazione evangelica della gioia del Padre quando il figlio ritorna a casa. E tuttavia vi sono ombre e difficoltà di interpretazione tra le religioni e all’interno di esse. Anche tra i cristiani e i cattolici stessi, che vivono fuori o ai margini della vita ecclesiale si pongono problemi e interrogativi. Non riguardano solo l’interpretazione corretta da dare alle indulgenze, o alle forme della penitenza, ma più radicalmente è in crisi il criterio di valutazione su ciò di cui ci si deve pentire. Sappiamo che l’elencazione gerarchica delle colpe non è oggi unanimemente riconosciuta e forse è da ritrovare una più larga sintonia e convergenza per riformulare e ripresentare alla coscienza cristiana (per limitarci a questa) la gerarchia delle colpe. Il criterio ‘scolastico’ (di san Tommaso) che il bene richiede la completezza degli elementi che costituiscono il suo essere mentre il male proviene da un qualsiasi difetto (bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu), non esclude che si abbiano criteri per valutare il “difetto”, nella prospettiva e nella logica dell’imperfezione umana. Ed è ancora in crisi oggi la prassi del perdono “orizzontale” tra uomini che si sono offesi. Fa impressione la tracotante sicurezza di certi personaggi, di cui ha parlato recentemente la cronaca internazionale, che dopo aver commesso più di un omicidio, affermano di sentirsi a posto in coscienza, di non aver nulla di cui pentirsi, di essere convinti che tutto quello che hanno fatto lo rifarebbero, avallando la giustificazione che si trattava di lotta politica. Questo atteggiamento (non di tutti gli ex) che riguarda il periodo delle Brigate rosse del nostro Paese, ora, in maniera massicciamente più ampio è tragicamente presente in alcuni Paesi dove il terrorismo, la rappresaglia, la tortura, i bombardamenti sono considerati normali strumenti di lotta politica e persino legittimati come religiosamente corretti. La Chiesa, non solo quella che respira il carisma di Francesco d’Assisi, invita a chiedere e concedere il perdono e lei stessa ha chiesto perdono a Dio e agli uomini, per colpe non sue, ma di suoi membri di tempi lontani. Non c’è chi non veda che, al contrario, una cultura di insensibilità morale si stia diffondendo con conseguente imbarbarimento di costumi che contrastano con la “civiltà del perdono”, di cui l’umanità ha bisogno per la sua sopravvivenza.

AUTORE: Elio Bromuri