Andare di nuovo a Betlemme

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini Natale del Signore - anno B

Finalmente, i pastori arrivano alla grotta. È quanto ascolteremo nella lettura evangelica della messa dell’aurora nel Natale del Signore. Nel Vangelo della notte, come sappiamo, l’annuncio rimane sospeso, e con questo anche i lettori (o gli ascoltatori), che dopo l’invito dell’angelo non sanno cosa accadrà’ Andranno i pastori a Betlemme? Rimarranno invece lì dove sono a custodire il gregge? Chi conosce anche l’altro racconto del Vangelo dell’infanzia di Gesù, quello di Matteo, sa che la risposta non è scontata. Il re Erode, i sapienti e gli scribi di Gerusalemme, ad esempio, anch’essi hanno ricevuto un annuncio, questa volta dai Magi: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (Mt 2,2). Ma non si muovono: dalla vicina città di Gerusalemme, per andare a Betlemme, non si sposta nessuno. Quelli che ci arrivano sono invece degli stranieri (i Magi), e vengono da molto lontano. Dei pastori, che “erano in quella regione e vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” (Lc 2,8), poco sappiamo, ma qualcosa ce la possiamo immaginare.

Come tutti gli adulti maschi delle tribù degli ebrei, dovevano avere poca dimestichezza coi bambini, abituati com’erano a pensare che si trattasse di cose di mogli, quelle sì che si devono caricare della responsabilità dei figli. C’era poi una difficoltà oggettiva nelle parole ascoltate dall’angelo, che invitavano ad entrare in una casa dove una puerpera aveva appena dato alla luce un figlio (“Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”; Lc 2,12). Difficilmente un ebreo avrebbe osato entrare in una luogo dove una donna aveva partorito, secondo quanto è scritto nel libro del Levitico (12,2ss): “Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda (impura) per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione”.

L’impurità, in questa antica simbolica, non significa certo qualcosa di “sporco”, di “peccaminoso”, quanto piuttosto esprime la credenza che il sangue derivante dal parto (come ogni sangue, del resto) sia legato al mistero della vita, che come tale può venire solo da Dio, mistero inavvicinabile. È impuro ciò che pericolosamente porta nella sfera di Dio. Luca, in sintesi, ci dice che tanti ostacoli si oppongono all’invito dell’angelo. I pastori devono avere il coraggio di lasciare il gregge o di affidarlo ad altri; devono superare antichissime regole di purità; devono, più di ogni altra cosa, “perdere la faccia” decidendo di andare a vedere un bambino: come se non l’avessero mai visto in vita loro, chissà cosa deve avere tanto di speciale, questa volta. Forse perché i pastori, notoriamente, non erano in grado di osservare come richiesto le regole di purità, forse perché hanno assistito ad un meraviglioso annuncio di gioia, sta di fatto che all’invito dell’angelo, credono. E rischiano, e vanno a Betlemme: “Appena gli angeli si furono allontanati da loro per andare verso il cielo, i pastori dicevano fra loro: Andiamo fino a Betlemme a vedere quello che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere” (Lc 2,15).

I pastori assumono qui il ruolo dei credenti, a riprova che la teologia di Luca provvede un posto speciale – nel Regno di Dio – ai poveri, agli umili, agli storpi, ai ciechi (cfr. Lc 14,21). Solo questi sono capaci di accettare l’invito alla festa, gli altri sottovalutano la grande gioia di un incontro: alla grande cena preparata da Dio (Lc 14,14), ci andranno solo quelli che hanno fame: i sazi hanno già il loro succulento cibo pronto nelle loro case. Anche quest’anno bisogna decidere se andare un’altra volta a Betlemme. La scelta non è da poco. Significa rimettersi in gioco, ancora una volta, e credere alle parole di un angelo. Comporta – come già per i pastori – doversi alzare, doversi muovere, lasciare qualche sicurezza e fare un tratto di strada di notte, al buio, magari in mezzo a qualche pericolo.

È un atto di grande fede. Ognuno sa cosa significhi andare a Betlemme, ciascuno intuisce in cuor suo se valga la pena tornarci. Una cosa è certa: tra le tante proposte che il mondo ci offre, l’invito dell’angelo ha come esito la gioia. Nulla sappiamo dei pastori dopo l’incontro, Luca ci dice soltanto che “‘andarono dunque in fretta e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia. (…) I pastori poi se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, come era stato detto loro” (Lc 2,16.20). Nonostante tutto, vale la pena riprovare, anche quest’anno. Il messaggio è chiaro: andando a vedere un bambino, troveremo anche noi Dio.

AUTORE: Giulio Michelini