In Birmania non è reato compiere genocidi. È reato denunciarli

di Tonio Dell’Olio*

Wa Lone e Kyaw Sue non sono nomi che si ricordano facilmente, eppure avrebbero dovuto far rivoltare le nostre coscienze. Arrestati alla fine dello scorso anno, il 3 settembre scorso sono stati condannati a sette anni di reclusione da un tribunale birmano perché sono entrati in possesso e hanno reso pubblici alcuni documenti riservati che dimostravano le esecuzioni di massa dei rohingya da parte dell’esercito.

Ci sono al mondo tribunali che non considerano un crimine l’uccisione di massa di popolazioni ritenute minoranze non gradite; ma per i quali è reato documentare la violazione dei diritti umani compiuta in modo brutale e seriale. La persecuzione ai danni della minoranza islamica in Birmania ha causato finora la fuga di almeno 700 mila persone in Bangladesh. Dobbiamo imparare a indignarci, a protestare e a chiedere giustizia per ogni persona la cui dignità venga offesa.

Al di là del colore della pelle, del popolo cui appartiene e della religione che professa. Sembrerebbe elementare e acquisito, ma, a quanto pare, non è ancora “patrimonio comune dell’umanità”.

*presidente Pro Civitate Christiana – Assisi