Castello, 70° della Liberazione: il ruolo di mons. Cipriani

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Distribuzione di pasti caldi da parte delle Cucine Economiche poste nei locali di via S. Antonio (1949)

Lo scorso 22 luglio Città di Castello ha commemorato il 70° anniversario della liberazione della città da parte dell’esercito inglese. Finiva così, in quel giorno dell’estate 1944, uno dei periodi più terribili della più che bimillenaria storia cittadina, segnato dalla morte, dalla distruzione, dalla disumanità. Le varie manifestazioni rievocative, che hanno visto anche la denominazione dello spazio antistante porta Santa Maria in largo XXII Luglio, sono culminate nella serata, quando il giardino di palazzo Vitelli a Sant’Egidio ha ospitato un momento di musica e spettacolo gustato da un pubblico attento e commosso, giunto anche dai Comuni vicini.

Rievocare i fatti dell’estate 1944 significa anche ricordare l’impegno della Chiesa in favore dei perseguitati e, in generale, di quanti si trovavano in situazioni difficili, talora disperate. Gli archivi delle parrocchie, dei monasteri e dei conventi contengono ancora le tracce documentarie di una carità che seppe rivolgersi a tutti. Una significativa eco di questo è contenuta in una relazione inviata dal parroco di San Pietro di Garavelle (Zoccolanti) al Vescovo il 15 novembre 1944.

A proposito dell’accoglienza di alcune orfanelle nella clausura del convento dei Frati minori, scrive: “Le abbiamo messe in collegio, dove non c’è clausura. Ma anche se ci fosse stata, sarebbe stato lo stesso, perché in queste dolorose circostanze cessano tutte le leggi umane e rimane la sola carità”. Il vescovo era mons. Filippo Maria Cipriani, nato a Galatina il 10 agosto 1878 e ordinato prete per l’arcidiocesi di Fermo il 3 marzo 1901. Era stato eletto vescovo di Città di Castello il 29 settembre 1934 e consacrato l’8 dicembre seguente, trovandosi così a gestire l’impegnativa successione di mons. Carlo Liviero, morto nel 1932.

Nella drammatica estate del 1944 il vescovo Cipriani è l’unica autorità a rimanere in città; quando tutti scappano, il padre rimane con i figli, il pastore rimane in mezzo al proprio gregge.

L’esempio del Vescovo è accolto dall’intero clero: quello di città collabora con lui, quello di campagna rimane nelle proprie parrocchie a proteggere i propri parrocchiani.

Nel 1989 mons. Beniamino Schivo, che fu fra i più stretti collaboratori di mons. Cipriani, pubblicò le Memorie dell’assedio 19 giugno – 22 luglio 1944, che il Vescovo scrisse come proprio diario, il quale così ricorda il fatto della liberazione: “Quando ci siamo alzati, notizie strabilianti. Il ponte è salato proprio alle 2.30 per opera dei tedeschi in rotta. Si parla di rotta, perché effettivamente durante la notte sono fuggiti tutti. […] Abbiamo concluso che tutti gli sbocchi della città erano stati intercettati e quindi passati ormai tutti tutti i tedeschi! Respiriamo! – Alle ore 10, adunanza in Comune coi maggiorenti d’occasione per invito del solerte pretore. Intervengo io pure e si conclude il da farsi sia in ordine all’ospedale, sia in ordine all’approvvigionamento sia in ordine anche all’ingresso non lontano degli inglesi. […] Il pretore mi manda a dire che alle 5 sarebbero venuti gli inglesi e l’ufficiale sarebbe stato accompagnato da me. […] Poco dopo viene Bevignani con l’ufficiale inglese, che viene a salutare gentilissimamente, parlando alla meglio ambedue un po’ di francese. […] 23 luglio, domenica – festa della Liberazione. Alle 7.30 io celebro al duomo dopo 33 giorni di assedio e di assenza. Parecchia gente: commossi tutti. Io parlo al Vangelo con commozione profonda, insistendo a ringraziare il Signore per il cumulo di miracoli compiuti a favore della nostra città e a formulare propositi concreti di vita cristiana intensa, integrale, duratura”.

Il vescovo Cipriani morì l’8 ottobre 1956, ma la città non ha dimenticato la sua presenza nel momento del dolore. A suo nome è stata dedicata una strada nella prima periferia nordest, nella zona del Gorgone. In cattedrale gli è stata costruita una tomba monumentale, decorata da un affresco che lo raffigura – quasi un nuovo san Florido – benedicente tra le rovine della città distrutta.