Apparteniamo al Signore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia XXVI Domenica del tempo ordinario - anno B

Il Vangelo di Marco ci presenta Gesù che continua a parlare ai discepoli, mentre prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. È ancora viva la scena di domenica scorsa quando chiese loro di cosa stessero discutendo lungo la via dopo l’annuncio della passione. Essi non risposero nulla, e a ragione. Stavano, infatti, dibattendo su chi di loro dovesse essere il primo, nonostante le tragiche parole di Gesù sulla sua morte. Nel brano di questa domenica, Giovanni, uno dei dodici che aveva taciuto, questa volta si fa avanti e con tono sicuro dice: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”.

Povero Giovanni, non ha capito nulla! E Gesù, ancora una volta, raccoglie tutti e, con pazienza, li ammaestra e li corregge insegnando loro il modo evangelico di comprendere e di giudicare la vita. Ebbene, è proprio quel che accade ogni domenica quando il Signore raccoglie i discepoli e parla al loro cuore seminandovi il buon seme e sradicando le erbe amare che avvelenano la loro e l’altrui esistenza. Non di rado anche noi ragioniamo come Giovanni, e reagiamo con lo stesso spirito. La secca e sicura affermazione del discepolo esprime il fastidio tipico delle persone grette e ripiegate su se stesse e sul proprio gruppo. È un’attitudine che tutti conosciamo bene, per esperienza diretta. In verità non è questo il modo per difendere la verità. In genere tale atteggiamento è teso piuttosto a difendere i propri privilegi, le proprie posizioni, le proprie convinzioni, non guardando la sostanza delle cose che è la salvezza delle persone. Non si salva la verità difendendo i propri privilegi, magari passando sopra le persone.

Nel libro dei Numeri, a dimostrare quanto una tale mentalità sia radicata nel cuore degli uomini, è riportato un episodio analogo accaduto agli inizi del cammino del popolo d’Israele. Giosuè è informato che due uomini qualunque, non facenti parte del gruppo dei settanta responsabili d’Israele e senza avere un apposito mandato si sono messi a profetizzare. La sua reazione è immediata. Corre stizzito e preoccupato da Mosé per chiedergli che impedisca ai due che non fanno parte del gruppo prescelto, di parlare. Mosé risponde al giovane e zelante capo: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Num 11, 29). Quel che preoccupa Giosuè, Giovanni e gli altri discepoli (compresi molti di noi) non è la guarigione dei malati e la liberazione dei posseduti dagli spiriti, ma il proprio gruppo e la propria istituzione, o meglio il proprio interesse, la propria sicurezza, il proprio potere che essi vedono garantito nel gruppo e nell’istituzione. Ma non è questo il pensiero di Gesù.

Ben più largo del cuore dei discepoli è il cuore di Gesù, e senza confini è la sua misericordia per i deboli e i poveri. Con decisione perciò Gesù risponde a Giovanni e agli altri: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi”. Il bene, dovunque esso sia e da chiunque è compiuto viene sempre da Dio. Chi aiuta i bisognosi chi serve i poveri chi sostiene i deboli, chi conforta i disperati chi esercita l’accoglienza, chi promuove l’amicizia, chi si adopera per la pace, chi è pronto al perdono, costui viene sempre da Dio. Non si appartiene al Signore semplicemente perché si fa parte di una istituzione, di un gruppo, di una organizzazione per quanto essa sia santa. Apparteniamo al Signore quando l’amore ci supera; quando cioè l’amore per gli altri è più forte dell’amore per noi stessi, quando il nostro orecchio interiore riesce a cogliere i palpiti di Dio ovunque essi battano.

Dio è oltre il nostro gruppo, oltre la nostra parrocchia, oltre le nostre Chiese cristiane, oltre le religioni. Dio rompe ogni schematismo per essere dovunque c’è un poco d’amore, un poco di bontà, un poco di pace un poco di misericordia. Dio sta in quell’assetato a cui viene dato un bicchiere d’acqua, sta in quell’affamato a cui viene offerto un pezzo di pane, in quel disperato a cui viene rivolta una parola d’amore. La Chiesa è la custode di questa verità evangelica, e deve predicarla con forza all’inizio di questo millennio. Non dobbiamo correre il rischio di restringere la forza miracolosa della misericordia di Dio nella misura stretta dei nostri schemi e delle nostre logiche. Non dice forse Gesù: “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce ma non sai da dove viene e dove va” (Gv 3, 8). Lo spirito di Dio è davvero grande e senza confini. Beati noi se sappiamo riconoscerlo ed accoglierlo! Anzi, dice l’Apostolo, dobbiamo stare attenti a non contristarlo. Non dobbiamo rattristarci, come l’apostolo Giovanni, se vediamo che altre persone non facenti parte del gruppo scacciano i demoni. Gesù gioì vedendo che tanti guarivano e tornavano sani. Infatti, la gioia del Signore è l’uomo vivente.

Grande fu la sua letizia nella creazione, dal primo giorno sino al culmine della sua opera quando creò l’uomo e la donna. L’autore biblico non può non notare: “e Dio vide che era una cosa buona”. Questa deve essere anche la gioia del discepolo. Sì, tutti dovremmo gioire del bene che vediamo nel mondo, da chiunque viene compiuto e in qualunque parte viene realizzato. Il bene nasce sempre da Dio, che è “fonte di ogni bene”, come canta la Liturgia. Le parole durissime che Gesù pronuncia nella seconda parte del brano evangelico sottolineano, con un linguaggio iperbolico, qual è la via del discepolo: “Se la tua mano, o il tuo piede o il tuo occhio ti scandalizzano tagliali… è meglio entrare monchi nel regno di Dio, che essere gettati sani nella Geenna”. Essere di “scandalo” vuol dire far inciampare e cadere; o comunque non sostenere chi è debole e bisognoso di conforto. Noi pensiamo che la felicità stia nel conservare se stessi, nel camminare indenni in mezzo a questo mondo, nel non perdere mai nulla.

Al contrario, dice Gesù, la felicità sta nello spendersi per il Vangelo, nel dare la propria vita per gli. altri. E ricordiamo la frase di Gesù riportata da Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20, 35). E per questo vale la pena fare sacrifici. L’amore per gli altri, del resto, chiede sempre qualche taglio, esige sempre qualche rinuncia. Non si tratta ovviamente di mutilazioni da realizzare bensì di cambiamenti da attuare negli atteggiamenti e nel cuore. Noi, infatti, abbiamo in genere gli occhi puntati solo su noi stessi; le mani operose solo per le nostre cose; i piedi che si muovono. solo per i nostri affari Togliamoci almeno un occhio di dosso e saremo ce-rtamente più felici. Usiamo almeno una mano per aiutare chi soffre e gusteremo la stessa gioia di Gesù. Muoviamo i nostri piedi sulla via del Vangelo e saremo testimoni dell’amore di Dio. Così daremo un senso alla vita e comprenderemo quanto dice Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita la perde; chi perde la sua vita per il Vangelo la ritrova”.

AUTORE: Vincenzo Paglia