Chi crede in lui ha la vita eterna

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia Commemorazione dei defunti - anno B

“Non vogliamo fratelli che ignoriate la condizione di quelli che dormono nel Signore, affinché non siate tristi come quelli che non hanno speranza” (1 Tes. 4, 12). Così l’apostolo Paolo scriveva alla comunità cristiana di Tessalonica per confortarla nella fede. E oggi la Chiesa con questa memoria liturgica vuole sostenere la nostra speranza nella vita piena che il Signore ha promesso ai suoi figli. E non è senza significato che la festa di tutti i santi sia così strettamente unita alla memoria dei defunti. Si potrebbe dire che in certo modo, è la stessa festa che continua, e quest’anno, cadendo nel giorno di domenica, assume un significato ancor più manifesto.

La risurrezione di Gesù “il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1, 18), è uno dei cardini della fede cristiana tanto da far dire all’apostolo Paolo: “Se Cristo non è risuscitato dai morti allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Cor 15, 14). Fu proprio sul punto della risurrezione di Gesù, e quindi di tutti coloro che a lui aderiscono, che gli ateniesi ruppero con l’apostolo Paolo all’areopago dicendogli: “Su questo ti ascolteremo un’altra volta”. Per quegli ateniesi che pure avevano accettato l’immortalità dell’anima, era del tutto inaccettabile la risurrezione della carne. Ma è proprio questa la novità cristiana: la vittoria completa e piena di Gesù sulla morte. Chi crede in Lui risorgerà con il suo corpo. È un Vangelo, una buona notizia, davvero sorprendente e consolante. Impossibile a noi persino pensarla. Ma nulla è impossibile a Dio. E non gli è impossibile soprattutto la salvezza di coloro che Egli ha amato al punto da mandare per loro il Suo Figlio sulla terra. Certo, tutti sentiamo la durezza della morte e, se pensiamo a coloro che sono morti, particolarmente a quelli che sono più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione.

Tuttavia l’apostolo Paolo ci invita a non dimenticare il futuro riservato ai figli di Dio: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli… E se siamo figli siamo anche eredi”. E aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8 15.18). In questa domenica, la Santa Liturgia schiude ai nostri occhi uno spiraglio di questa “gloria futura”. Futura per noi; presente per i defunti. Essi, infatti, abitano su quel monte alto ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli. Il velo “che copre la faccia” e che fa ripiegare su se stessi è stato definitivamente strappato, i loro occhi contemplano il volto di Dio, nessuno più versa lacrime di tristezza, e se lacrime ci sono è per l’indicibile commozione di fronte all’amore infinito di Dio. È una visione che la Liturgia oggi ci dona perché sappiamo dove essi sono e dove noi andremo. Se la morte ci separa, e ne sentiamo tutta la tristezza, il suo potere però non è più un potere assoluto.

Dopo la risurrezione di Gesù essa, che pure continua a coglierci, non ci allontana più gli uni dagli altri non rompe più i vincoli di amore che abbiamo legato sulla terra, non ci fa più uscire dalla famiglia di Dio. Siamo stati infatti raccolti da Gesù che ha dato la sua vita perché non andasse perduto nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato. L’amore di Gesù è più forte della morte. Egli, che ci ha amato e che ci ha cercato sino all’inverosimile, non permette che la morte ci separi da lui. È bella l’affermazione dell’antico canto del Dies irae: “Quaerens me, sedisti lassus“. Gesù, che ci ha cercato sino a sedersi stanco per la corsa, come può lasciarci nel momento di maggiore bisogno, di maggiore debolezza, qual è quello della morte? Tutti i credenti sono nelle mani di Dio. E il suo amore è più forte della morte. Con grande sapienza i nostri antichi, quando costruivano le basiliche, dipingevano nell’abside i santi della comunità cristiana che lì viveva e pregava. Se penso alla basilica di Santa Maria in Trastevere rivedo ancora quel catino dorato con i santi che attorniano Gesù e Maria seduti sul trono: sono i santi della comunità cristiana di Roma, anzi della comunità di Trastevere che hanno raggiunto il regno dei cieli.

Quella conca d’oro, infatti, doveva (e deve) significare il futuro della comunità cristiana che lì si raccoglie nella preghiera. È verso quell’abside – è verso tutte le absidi delle nostre chiese – che deve dirigersi lo sguardo e soprattutto la vita dei credenti. Sì quell’abside è un segno, piccolo e pallido, del paradiso che ci attende. E lì sono i nostri santi; lì sono presenti tutti i defunti. Ogni chiesa dovrebbe ricordarci questo mistero. Purtroppo è ben poco presente negli edifici di culto che oggi si costruiscono. Ed è un peccato. Il mistero della Chiesa indivisa, quella del cielo e quella della terra, dovrebbe trovare la sua visibilità nelle nostre chiese, appunto per sostenere la nostra speranza. Talora ci chiediamo dove sono i nostri morti; e magari cerchiamo di pensarli, di immaginare il luogo dove vivono e cosa fanno.

Certo, è forte e bella la tradizione di visitare i cimiteri, i luoghi ove essi, come dice l’antica tradizione cristiana, “dormono” in attesa del risveglio. Ma è anche bello (e forse ancor più) pensare che i nostri defunti continuano ad essere presenti nelle nostre chiese, là dove hanno ricevuto i sacramenti, dove hanno pregato, dove hanno lodato il Signore dove hanno sperato nei momenti difficili, e da dove sono stati accompagnati verso il cielo. Sì, potremmo dire che i defunti sono nelle chiese della comunità di cui facevano parte: la morte, infatti, non ha interrotto i legami. Essi, continuano ad essere vicini per celebrare assieme a noi la lode del Signore. Ecco perché in antico si veniva sepolti dentro o almeno accanto alla chiesa. C’è una comunione salda con tutti loro che viene garantita da Gesù. È vero, non è una comunione visibile, ma non per questo meno reale. Anzi, è ancor più profonda perché non fondata sulle apparenze esteriori. La comunione con i nostri defunti è fondata sul mistero dell’amore di Dio che tutti raccoglie e sostiene. L’amore di Dio è la verità della vita e della morte. Tutto passa, anche la fede e la speranza, tranne l’amore.

AUTORE: Vincenzo Paglia