“Io sono la vite e voi i tralci”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia V Domenica di Pasqua - anno B

È la quinta domenica “di” Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo restare nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano: “non possiamo vivere senza la domenica”, ossia “non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto”.

Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo spirito che riceviamo nella santa liturgia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana. La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di “rimanere” in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui”. E nella parabola della vite i tralci i termini “rimanere” e “dimorare” ne sono il cuore.

L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo. Isaia, nel mirabile “canto della Vigna” descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’lsraele: “Io ti avevo piantata come vite feconda e tutta genuina. Come mai sei diventata una vite aspra, selvatica e bastarda?” (2, 21). Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: “Io sono la vera vite”. Nessuno l’aveva mai detto prima.

Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testamento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: “Io sono il buon pastore”. Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”. Gesù si identifica con la vite, specificando che è la “vera” vite; ovviamente per distinguersi dalla “falsa”. Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: “io sono la vite e voi i tralci”. I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essenziale e forte. E’ un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologici le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirompente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: “In questo è glorificato il padre mio: che portiate molto frutto”.

Il Vangelo prosegue: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Sì, proprio quelli che “portano frutto”, conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere “senza macchia” (Ef 5, 27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo che va intesa la potatura, il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scontata né naturale, e non è un progresso univoco.

Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a sentimenti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature. E’ la condizione per portare frutto per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono, magari, si saranno chiesti: “ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?” In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le “sue parole rimangono in noi”.

È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale “conservava nel suo cuore tutte queste cose”. È la via che scelse Maria la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesu è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di “non amare a parole né con la lingua. ma coi fatti e nella verità”.

AUTORE: Vincenzo Paglia