Divorziati e risposati. Pur sempre battezzati

Intervista a fra Marco Vianelli, ofm sulla questione dei divorziati risposati. Ascolto, accoglienza e accompagnamento le parole guida

I divorziati risposati ora possono fare la comunione? Ma prima non era loro vietato? E Papa Francesco ha cambiato la dottrina e il Vangelo? Sono domande che alimentano anche infuocate polemiche nei confronti del Papa, domande di cui si è occupato il Sinodo sulla famiglia e di cui si occupa l’“Esortazione apostolica sull’amore nella famiglia”, la Amoris Laetitia pubblicata il 19 marzo di un anno fa, e alla quale è stato dedicato il convegno regionale sulla famiglia tenutosi domenica scorsa a Santa Maria degli Angeli.

Tra i relatori c’era padre Marco Vianelli, giudice del Tribunale ecclesiastico interdiocesano dell’Umbria e parroco di Santa Maria degli Angeli. Padre Marco da molti anni ha a che fare con i separati e con i divorziati risposati, e dunque ha una lunga esperienza di incontri personali alla quale si aggiunge quella di giudice che deve applicare la legge della Chiesa condensata nel Codice di diritto canonico. Con lui cerchiamo di capire meglio come è possibile conciliare la legge e la misericordia, come chiede Papa Francesco.

Padre Marco, c’è chi anche nella Chiesa rimprovera Papa Francesco di voler sovvertire il comando evangelico della indissolubilità del matrimonio. È così?

“Su questa materia non sono stati introdotti nuovi capi di nullità né una nuova teologia. Quello che è nuovo è una dimensione di prassi, dove si parte non più dalla dimensione dogmatica, che rimane e non è cambiata, ma si parte dall’ascolto della persona, del dramma che vive, della solitudine che ha vissuto. Da qui la si accompagna piano piano perché chi non vuol mettersi in cammino non potrà mai poter pretendere l’Eucarestia come rivendicazione: non è un diritto”.

C’è chi teme e paventa proprio questo …

“Chiunque si presenta e ha voglia di fare un cammino dovrà trovare qualcuno che lo accompagna, e questa è un’esperienza ecclesiale e un’occasione di riavvicinamento alla fede, un’occasione di verità che la persona fa sul suo stato di vita, sulle scelte che ha fatto. Questo, però, a partire non dal giudizio ma dall’ascolto del suo dramma, della sua fatica, dell’impossibilità a volte di fare delle scelte diverse da quelle che ha fatto. Questa dimensione metodologica sposta l’accento sulla persona più che sulla norma, è un cammino di formazione della coscienza affinché la persona prenda coscienza della verità che è contenuta nella norma e faccia lei stessa un discernimento. Solo così quando si troverà a mettere insieme questi pezzi sarà lei stessa a fare una scelta, a dire se può o non può fare la Comunione. Diversamente ci si muove in una logica rivendicativa”.

E il prete che ruolo ha?

“Dall’altra parte c’è anche il grande problema di accompagnare queste persone con dei pastori che sappiano stare di fronte al dramma di questa gente, perché te lo buttano addosso e fa male, e sai che non è facendogli ‘sconti’ che staranno meglio, perché hanno bisogno della verità, una verità fatta nella logica della carità. E quindi dire che “adesso il Papa ha dato la possibilità a tutti di fare la Comunione’ non è vero, perché non l’ha detto, e non è buono dirlo pastoralmente perché non aiuta la persona a riappropriarsi di quel gesto che ha un significato importante. La domanda di Comunione che queste persone portano dentro, fosse anche partita dall’esperienza di una frattura, è una domanda vera, è una domanda che va presa sul serio e va presa in considerazione, e la risposta deve essere proporzionata a quella domanda, non può essere uno sconto perché mi fai pena o perché io faccio fatica a starti di fronte”.

Quindi è un discorso di fede? Non psicoterapeutico?

“È un discorso primariamente di fede, ma che ha anche a che vedere con la dimensione dell’umano, quindi con la sua dimensione pedagogica prima terapeutica poi, se ci sono delle ferite che arrivano su quel piano. Noi il più delle volte lavoriamo con persone che sono sì ferite ma che soprattutto devo aiutarle a crescere”.

L’Amoris Laetitia è dell’anno scorso, ma queste esperienze di accompagnamento già c’erano…

“Già nel 2011 l’ufficio di Pastorale familiare della Conferenza episcopale italiana fece un convegno su luci e ombre della famiglia ferita, e lì per la prima volta iniziammo a ritrovarci insieme tutte quelle realtà che già si prendevano cura di queste situazioni. Posso dire che la Chiesa di per sé, nei suoi documenti, fin da quello sulla pastorale dei divorziati risposati del ’79 (il divorzio in Italia arrivò nel ’74) da subito intercetta la domanda. Negli anni la Chiesa si è espressa sempre con un linguaggio molto positivo anche nei confronti di questi fratelli anche se è cambiato il modo in cui è stata espressa la visione di questi fratelli come parte integrante del corpo della Chiesa. E chi li ha accompagnati, ed ha dovuto in qualche modo capire come doveva accompagnarli, ha sempre avuto chiaro questa visione”.

Possiamo dire che è anche soprattutto un problema di comunicazione se i separati e i divorziati risposati hanno sperimentato più il giudizio che l’accoglienza?

“È sicuramente un problema di comunicazione ma è anche vero che la Chiesa è stata anche questo, perché non è solamente un racconto funzionale al laicismo. Molte porte in faccia la gente le ha prese davvero, forse anche per una difficoltà dei pastori di leggere con ecclesialità i documenti della Chiesa. Sono stati letti con una visione intransigente, in modo giuridicista. Dico giuridicista perché il modo giuridico ha la consapevolezza del valore della norma che al suo interno prevede anche la ‘dispensa’, per esempio, che è la declinazione o la sospensione del valore della norma ‘per la persona’, perché la persona è al centro della visione giuridica della Chiesa”.

Oggi alcuni dicono che la Chiesa non rispetta più le sue stesse leggi …

“In realtà nella sua visione giuridica la Chiesa pone al centro la persona, e le norme, le leggi, sono le soluzioni per la salvezza della persona. Chi le usa come dei sassi fa un riduzionismo giuridico, ma non c’è una comprensione funzionale del diritto a questo. Tante volte abbiamo letto dei documenti pastorali o dei documenti giuridici con questa dimensione tranchat che era funzionale ad una dimensione rassicurante del tipo ‘i paletti sono questi e se ci stai beene se non ci stai non è un problema nostro’. Chi invece da sempre ha accompagnato questi fratelli non solo ha scoperto la modalità diversa di approccio ma ha scoperto che non sono un problema nella Chiesa piuttosto sono una potenzialità perché aiutano la Chiesa a comprendersi meglio”.

In che senso?

“Quando tutti eravamo ‘cristiani’e quindi omologati non avevamo colto la possibilità che ci potessero essere modi diversi di essere cristiani. La Chiesa dei primi secoli aveva dei cammini di introduzione alla fede dove alcuni potevano fare certe cose altri ne potevano fare delle altre perché la loro relazione col Signore era diversa. Il punto è proprio questo: riscoprire il valore di questi fratelli, non come un problema da risolvere ma proprio come una occasione di una comprensione ecclesiologica diversa”.

Possiamo dire che questo riporta l’attenzione all’essenziale dell’essere cristiani, ovvero alla dignità di Figli di Dio che si riceve con il Battesimo?

“La cosa interessantissima è che don Carlino Panzeri, responsabile della pastorale familiare della diocesi di Albano Laziale, alcuni anni fa in un incontro alla Casa della tenerezza sottolineava come nei documenti della Chiesa, quando si parla dei fedeli divorziati e risposati, si parla di fedeli cioè si parla di Christi fideles. La Chiesa non ha mai usato la categoria sociologica di divorziati e risposati, ma parla sempre di cristiani quindi e fratelli che hanno una situazione di difficoltà. Adesso, finalmente, si può anche raccontare e dire con maggior larghezza che la loro presenza pone un tema ecclesiologico, perché avere dei fratelli che vivono una non piena Comunione è mettere in luce la dimensione comunionale, anche se non piena. E questo si può dire anche delle coppie conviventi o sposate civilmente. Va bene dire che non c’è una pienezza ma questo non vuol dire che non c’è niente. C’è qualcosa e quel qualcosa su cui lavorare è l’essenziale. Il Papa su questo chiede di approfondire quali sono le possibili forme di espressione della comunione ecclesiale. Il divorziato risposato, il convivente può fare il maestro del coro? Può fare il lettore? Forse no, o forse sì a certe condizioni perché ha un ruolo anche all’interno dell’economia e della liturgia. Su questo dobbiamo interrogarci”.

 

AUTORE: Maria Rita Valli