Editoriale Fertilità: problema che andava posto

Fanno discutere il Fertility Day e la relativa campagna promozionale. Per carità, tutto è perfettibile, ma a questa iniziativa va riconosciuto il merito di porre seriamente la questione demografica, rompendo almeno due tabù culturali, il cui nefasto effetto è sotto gli occhi di tutti. Il primo è quello della fecondità come “questione privata”, espressione di un’insindacabile scelta della coppia (soprattutto della donna) su cui nessuno, men che meno lo Stato, ha diritto di interferire. L’“inverno demografico” in cui siamo immersi, nonostante l’apporto prezioso delle famiglie degli immigrati, rappresenta una chiara smentita di tale concezione: i bambini sono una risorsa di cui un Paese non può fare a meno. Lo Stato certamente non può obbligare nessuno a procreare, ma può e deve affermare che mettere al mondo dei figli è un comportamento civilmente apprezzabile. Per questo ha il diritto-dovere di sostenere fattivamente la maternità e la paternità, “premiando” con incentivi, bonus, detrazioni… le coppie che procreano di più; incoraggiando il matrimonio stabile tra un uomo e una donna, che rimane ancora oggi il contesto in cui maggiore è la fecondità e la cura efficace della prole; individuando e disincentivando le pratiche che sono causa di sterilità. Scelta né neutra né facile, perché non solo implica il reperimento di risorse in tempi di “coperte corte” ma, soprattutto, l’affermazione che un comportamento sia migliore di un altro.

Il secondo pregiudizio è quello che collega fertilità e welfare familiare. Per carità, i servizi è meglio averli che non averli, però non sono sufficienti. La fertilità delle donne tedesche, ad esempio, non è che sia tanto più alta rispetto a quella delle italiane, nonostante un welfare familiare assai più efficiente del nostro. E nessun Paese dell’Unione europea, nemmeno quelli con spesa familiare ingente, ha oggi un tasso di fertilità che garantisca la sostituzione delle generazioni (2,1 nati per donna: la Francia – prima in Ue – ha 2,01). Che vuol dire? Che la questione è culturale ed educativa. Che bisogna ricominciare a parlare dei figli ai giovani non come un carico pesante da sostenere, e quindi da evitare o rimandare, ma come una benedizione e un dono, fonte di felicità per sé e per gli altri. Che bisogna smettere di parlare di “salute riproduttiva” intendendo “limitazione delle nascite”, quanto piuttosto “aiuto alla fertilità”. Che bisogna favorire una visione positiva della vita e del futuro, offrendo ragioni di speranza e incoraggiando chi non aspetta di avere tutte le certezze e le garanzie (ma quali, poi?) per mettere al mondo dei figli. Che bisogna affermare – laicamente – come l’essere padri e madri è un bene per sé e per tutto il corpo sociale. Ben venga quindi il Fertility Day, nonostante tutto, a ricordare il bisogno di una seria politica demografica, libera da pregiudizi, che ci salvi dall’estinzione.

AUTORE: Paolo Giulietti

1 COMMENT

  1. Ottima analisi, finalmente si legge una riflessione seria avulsa da ideologie mortifere e tristi

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