Il diritto di avere diritti. Il dovere…?

Se è vero che a ogni diritto corrisponde un dovere, la stagione fervida delle proclamazioni e rivendicazioni (vedi Rodotà a Che tempo che fa di domenica sera con Fabio Fazio, sommersi da applausi a non finire) dovrebbe avere una corrispondente proclamazione e specifica indicazione circa chi e come tradurre in concreto nella pratica quel diritto. Tra i diritti, oggi si includono le richieste più discutibili e strane da quello dell’aborto a quello di farsi tatuaggi, a quello di sporcare i muri delle città e così via. Per paradosso, poi, alcuni difensori di diritti reclamano il dovere del medico di procurare l’aborto richiesto come dovere di servizio, negandogli il diritto all’obiezione di coscienza. Non è certamente il caso di mettere in discussione il diritto di avere diritti, nel senso che la persona umana è soggetto di diritti nativi in quanto persona e che ciò debba essere reclamato in quelle nazioni e in quei sistemi nei quali non c’è spazio per la libertà personale se non quella di obbedire al regime. Nella nostra società oggi, tuttavia, siamo di fronte alla tirannia del relativismo (Ratzinger), dell’individualismo, dell’arbitrio di compiere ogni scelta che passa per la testa. Ci si dovrebbe soffermare per stabilire a chi spetta di soddisfare certi diritti anche sacrosanti. Faccio l’esempio del lavoro. Chi ha il dovere di dare lavoro a chi non ce l’ha? Come si fa a creare lavoro? Basta un decreto del Governo? Lo Stato può favorire le condizioni, le strutture, gli strumenti. Ma se non c’è il senso del dovere, di chi ha potere e risorse, la voglia di vivere e creare qualcosa di utile per sé e per gli altri, nessuna legge sarà capace di dare risposte effettive. Domande che si pongono oggi in modo ancora più angosciante per la globalizzazione in atto. Oggi alcuni dei tanti Soloni (non saloni) che predicano il diritto di tutti a tutto, ora e sempre, farebbero bene a fare qualcosa di concreto. Queste osservazioni vogliono e intendono richiamare alla complessità e problematicità della questione sociale, che è oggetto di studio e di tentativi da tempo, anche se qualcuno vi si affaccia per la prima volta. Per i cristiani ha un riferimento sicuro in quello che chiamiamo insegnamento sociale della Chiesa, che è stato aggiornato lungo il corso dei decenni a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891) fino alla Deus caritas est di Benedetto XVI (2005). A questo insegnamento nelle pagine de La Voce ci siamo ispirati nei sessanta anni dalla fondazione ad oggi. Per tale motivo ci sentiamo nel “diritto” di esprimere le critiche a quanto si grida nella piazza mediatica che sembra spesso stonato, eccessivo, infondato, pericoloso e inutile per il futuro della società. Con grande libertà e senza tema di essere considerati di parte, i cristiani e gli uomini di buona volontà, riprendendo in mano, per esempio, a 50 anni di distanza la Pacem in terris, dovrebbero richiamare all’attenzione quel saggio pensiero radicato sul concetto di persona umana e della sua dignità, di diritti umani fondamentali, di valori, di solidarietà e di sussidiarietà, di limiti del potere finanziario, con indicazioni anche pratiche e immediate che coinvolgono i singoli, le famiglie, i gruppi intermedi, l’intera società nella equilibrata progettazione di esercizio della libertà e di responsabilità, precisando i soggetti, i confini e il potere delle pubbliche autorità. Mentre scrivo, guardando il calendario mi accorgo che oggi è la festa di santa Caterina da Siena, morta a 33 anni nel 1380, una vergine, mistica e operatrice sociale di prim’ordine, tanto che è stata acclamata come patrona d’Italia. Il nostro ragionare ha una radice antica. Auguri all’Italia!

AUTORE: di Elio Bromuri