Il tempio di Dio che siamo noi

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia Dedicazione della Basilica Lateranense - anno A

Oggi è la festa della Cattedrale di Roma, che è anche la cattedrale del mondo, la chiesa di riferimento di tutta la cristianità, segno di unità per i cattolici che vedono nel Papa il dolce “Cristo in terra”, come lo chiamava santa Caterina da Siena. La chiesa di San Giovanni in Laterano fu fondata dall’imperatore Costantino nel 324 nel luogo dell’antico palazzo dei Laterani. La festa di fondazione fu celebrata per molti secoli solo a Roma e solo nel 1556, a conclusione del Concilio di Trento, Pio IV la estese a tutta la cattolicità che sembrava aver ritrovato la sua unità dopo lo scisma protestante. Quella chiesa era segno della chiesa cattolica fatta di pietre vive, un edificio spirituale più che materiale, dove tutti rendono a Dio il “culto in spirito e verità”.

Con questa festa non intendiamo commemorare o celebrare l’edificio materiale romano, ma vogliamo riscoprire l’edificio spirituale del tempio di Dio che siamo tutti noi battezzati, costruiti sulla roccia di Pietro e destinati formare un solo corpo, il vero luogo dove Dio abita e vuole essere adorato. Si impone a noi una doppia verifica: quella dell’unità della fede e quella dell’unico culto autentico e sincero da tributare a Dio. Tanti sono coloro che si dicono cristiani perché battezzati, ma pochi sono i convertiti che praticano consapevolmente la propria fede. Molti si sono costruiti una religione “fai da te”, selezionando il Vangelo e scegliendo ciò che piace; una religione privata, da vivere solo dentro come pensiero talvolta ricorrente, senza nessuna pratica esteriore. Scoprono che c’è una chiesa vicino casa solo nelle grandi ricorrenze pubbliche, come Natale e Pasqua, o nelle ricorrenze familiari come i battesimi, i matrimoni e i funerali. Per il resto dell’anno, l’edificio sacro fa solo parte di un panorama abituale che lascia indifferenti, un sovrappiù dell’edilizia residenziale.

Il brano del Vangelo di Giovanni che abbiamo appena letto ci porta a Gerusalemme, nel Tempio, dove si svolgeva la vita religiosa degli ebrei. Siamo nei giorni che precedono la grande festa di Pasqua, che attirava pellegrini da tutto il mondo. Fin da quando era adolescente, a dodici anni, Gesù era stato iniziato a quel solenne pellegrinaggio (Lc 2,41-50). In quella prima volta si era trattenuto nel tempio all’insaputa dei suoi genitori, affascinato dalla bellezza e dalla sacralità di quel luogo che egli sentiva come la “casa” sua, la casa di suo Padre. Maria e Giuseppe lo avevano cercato per tre giorni prima di ritrovarlo nei cortili del tempio, alla scuola dei grandi maestri di Gerusalemme che in quei giorni davano lezioni all’aperto sotto i portici. Sì, perché il tempio includeva tre cortili in successione: il primo era detto il cortile dei pagani, perché vi potevano accedere anche i non ebrei; il secondo cortile era il cortile delle donne, e vi potevano accedere per pregare e conversare le donne ebree: il terzo cortile, il più interno, era il cortile degli uomini e dei sacerdoti. Vi entravano solo gli uomini ebrei circoncisi e i sacerdoti addetti al culto.

Il primo dei tre cortili, nelle grandi feste, si trasformava in una piazza del mercato, dove si vendevano animali da offrire in sacrificio (vitelli, pecore, capre e colombe) e dove erano collocati i tavoli per il cambio delle monete. Infatti era necessario cambiare le monete romane e greche, che portavano l’immagine del divino imperatore o degli dèi. Sarebbe stata una profanazione inaccettabile introdurre quelle immagini nel tesoro sacro del tempio. Gesù, entrando in quella bolgia, doveva aver più volte provato indignazione e rabbia per quello scempio. Quello non era più un luogo di preghiera, era un mercato; non era possibile pregare in quelle condizioni. Nei precedenti pellegrinaggi aveva tenuto dentro la sua irritazione, ma questa volta non regge più e dà sfogo a tutta la sua rabbia interiore. Raccoglie in terra alcune corde e ne fa una frusta con la quale inizia a colpire uomini e animali. Nel tempio non era consentito introdurre i bastoni e gli unici sassi erano quelli del selciato, che bisogna cavare. Possiamo immaginare la confusione e il fuggi fuggi di quel momento di estrema concitazione.

La furia di Gesù travolge i banchi dei cambiavalute e le gabbie dei venditori di colombe. Tutti sono costretti a cambiare posto e tornare fuori del tempio, ai piedi del monte degli Ulivi, dove era collocata normalmente la sede del mercato. È la prima e l’ultima volta che vediamo Gesù così arrabbiato fino a diventare furioso e menare colpi a destra e a manca. Fa paura, in un uomo mansueto e paziente come lui. La ragione la rivela lui stesso ai venditori di colombe che spinge fuori con più garbo: “Non fate della casa di mio Padre un luogo di mercato”. L’evangelista commenta che era lo zelo per la casa di Dio a “divorare” (kataphàgein) Cristo, una passione e un amore incontrollabili capaci di fagocitarlo e di consumarlo. Infatti sarà una delle cause che lo poteranno alla condanna a morte, quando alcuni testimoni, chiamati a deporre contro di lui, lo accuseranno di aver minacciato di distruggere il tempio (Mc 14,58).

L’avvenimento non può mancare di richiamare l’attenzione delle guardie del tempio, la polizia dei leviti, che gli chiedono con che autorità stia agendo in quel luogo gestito dalle grandi famiglie sacerdotali. Vogliono che esibisca loro un documento di legittimazione del suo agire inconsueto; magari un miracolo, visto che gode fama di taumaturgo. Gesù li rimanda a quel suo ultimo grande miracolo che è la sua risurrezione dai morti, con una linguaggio simbolico di facile comprensione per i suoi seguaci specie dopo la Pasqua cristiana: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere”. Dovette esser facile la sorpresa, il fraintendimento: “Questo tempio è in costruzione da 46 anni e tu lo rifaresti in tre giorni?”. Erode aveva cominciato i lavori nel 19 a.C. e nel 27 d.C., quando Gesù parla, quei lavori si potevano già dire conclusi, almeno nelle strutture più importanti.

L’evangelista ci spiega che Gesù intendeva parlare del tempio del suo corpo. Con la Pasqua di morte e di resurrezione, è Gesù risorto il nuovo tempio. In lui, con lui e per mezzo di lui sale a Dio la nostra preghiera e il nostro culto sacramentale e spirituale. Avremo sempre bisogno di una chiesa materiale dove raccoglierci come famiglia di Dio in preghiera, ma il vero tempio è e resta Gesù, il nostro mediatore che ci mette in comunicazione con il Padre. Nelle sue mani deponiamo le nostre suppliche quando le concludiamo dicendo: “per Gesù Cristo nostro Signore”. A lui affidiamo i nostri problemi, le nostre difficoltà, le nostre sofferenze, che diventano nelle sue mani un sacrificio spirituale gradito a Dio. Sulle sue labbra risuona la preghiera che lui stesso ci ha insegnato, il Padre nostro. Attraverso lui passa la grazia dei sacramenti che riceviamo e dell’eucaristia che consumiamo.

AUTORE: Oscar Battaglia