La festa della presenza nascosta di Cristo tra noi

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia Santissimo Corpo e sangue di Cristo - anno B

Il Vangelo di domenica scorsa si concludeva con questa assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Oggi ci viene descritto in che modo Gesù continua ad essere fra noi per sempre: mediante l’eucaristia, il mistero del corpo e del sangue di Cristo che celebriamo nella messa. Tutto il popolo di Dio sparso nel mondo si raccoglie con noi ogni domenica per celebrare la santa cena del Signore, descritta dal Vangelo che abbiamo appena letto. La festa di oggi è stata istituita per ricordare in maniera particolare il grande dono che Gesù ci ha fatto. In tempi non lontani era celebrata con grande solennità, con infiorate, processioni e canti che coinvolgevano l’intera comunità dei credenti. Oggi in molti luoghi la festa si è fatta meno appariscente, forse più intima. Essa deve però ricordare a tutti la presenza nascosta e discreta di Gesù nelle nostre chiese. Giorno e notte, una piccola luce la segnala all’attenzione dei pochi visitatori e fedeli. Senza quella fiammella le nostre chiese sarebbero vuote e fredde sale di riunione.

Tommaso da Celano, il primo biografo di san Francesco, racconta che il santo “ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare ogni giorno la messa, anche se unica, se il tempo lo permetteva” (II Cel. 152, 201). Fortunatamente c’è ancora qualcuno nelle nostre parrocchie che vibra dello stesso amore e del medesimo stupore, perciò ritiene tempo prezioso quello dedicato all’adorazione silenziosa dell’eucaristia. È una lampada umana che arde davanti a Gesù a nome di tutti.

Il Vangelo di Marco ci fa rivivere oggi la più antica celebrazione eucaristica nelle comunità di Gerusalemme e di Roma, quando i primi credenti si raccoglievano attorno a Pietro e agli altri apostoli per ascoltare i loro racconti e per “spezzare il pane” (At 2,42.46). È un rito ancora scarno, ridotto all’essenziale. Luca e Paolo ci presentano una liturgia in uno stadio più evoluto. Paolo l’aveva celebrata così a Corinto, negli anni 50-52: “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me’. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me'” (1 Cor 11,23-25).

In Marco manca l’invito a ripetere il rito che Gesù aveva appena celebrato, forse perché era evidente che Pietro ripeteva esattamente ciò che aveva visto fare quella sera. Luca precisa che fu proprio Pietro, insieme a Giovanni, a preparare, in tutta segretezza, la cena pasquale nella casa di un amico di Gerusalemme (Lc 22,8). I due erano discepoli fidati ed eseguirono con puntualità e discrezione quanto aveva indicato Gesù. Quello della segretezza era un accorgimento di sana prudenza: se Giuda avesse conosciuto in anticipo l’indirizzo, l’avrebbe segnalato ai sommi sacerdoti, che avrebbero potuto irrompere nel cenacolo e arrestare Gesù con relativa facilità. Quella notte non c’era nessuno in giro per le vie di Gerusalemme. Tutti erano radunati in casa a celebrare nell’intimità familiare la cena pasquale.

Quando tutto fu pronto, all’ora fissata, Gesù venne da Betania e sedette a tavola con i Dodici a iniziare un rito per lui consueto, ma che quella sera avrebbe avuto un significato speciale, unico. Tutti si sdraiavano sul fianco sinistro sui tappeti disposti intorno ad un tavolo rotondo, sul quale erano disposte quattro coppe di vino, una pila di focacce azzime, l’agnello arrostito, le erbe amare e una salsa di frutta. La cena prevedeva quattro momenti principali: una preparazione, che comportava la lavanda delle mani, la benedizione della prima coppa di vino, l’assaggio delle erbe amare e la salsa di mele e noci tritate. Il secondo momento era l’ascolto del racconto biblico dell’Esodo (Haggadà) fatto dal capo famiglia; in segno di gioia tutti bevevano vino dalla seconda coppa. Il terzo momento era costituito dal pasto principale, che iniziava quando il capo famiglia spezzava la focaccia di pane azzimo e lo distribuiva a ciascuno dei presenti; allora tutti prendevano dall’unico piatto centrale un pezzo di agnello, le erbe amare, la salsa di frutta e bevevano dalla terza coppa di vino. Il quarto momento era la conclusione della cena e comportava la benedizione della quarta coppa di vino (il calice della benedizione), il canto dell’Hallèl (Sl 135-136), l’appuntamento al prossimo anno, il congedo.

Quello che Marco descrive è il momento centrale e finale della cena. Dopo il racconto pasquale dell’esodo (Haggadà), Gesù prese il pane azzimo, pronunciò la benedizione di rito, lo spezzò e lo distribuì a ciascuno dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. L’espressione semitica vuol dire: ‘”Prendete, questo sono io”. Dovette essere una sorpresa per tutti, perché mai nessuno aveva identificato se stesso con un pezzo di pane. Naturalmente, egli non ne mangiò. La spiegazione di quella frase inaudita venne a conclusione della cena, quando Gesù benedisse l’ultimo calice di vino rosso, rese grazie (eucharistèsas) e lo distribuì a tutti dicendo: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. Dietro queste parole c’è ancora una volta la lingua e la cultura ebraica.

Il sangue per gli ebrei era la vita, perciò Gesù voleva dire che in quel calice c’era la sua vita donata per la remissione dei peccati a favore di tutti. Il termine “molti” (rabbim) nelle lingua ebraica indica totalità e va tradotto con “tutti”. Di questo sangue donato ci parla oggi la Lettera agli Ebrei nella seconda lettura. Il sangue stabilisce una nuova alleanza, una comunione intima tra Dio e gli uomini, superiore all’alleanza che Mosè stabilì con il sangue delle vittime animali alle falde del Sinai (Es 24,8). In virtù di quel corpo e sangue donati da Gesù sulla croce e commemorati nella celebrazione eucaristica, Dio Padre si impegna a stabilire un nuovo rapporto di unità con gli uomini, divenuti figli amati. Con la partecipazione al corpo di Gesù, noi diventiamo addirittura ciò che mangiamo. Paolo lo dice con chiarezza: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17). Dipende da noi essere consapevoli dell’immenso dono che Gesù ci fa nella celebrazione della santa cena. Questa celebrazione può essere calda di partecipazione o fredda di indifferenza e abitudine.

AUTORE: a cura di Oscar Battaglia