La necessità del perdono

Il perdono rimane a noi nella misura che anche noi perdoniamo ai nostri “debitori”

(Domenica XXIV Domenica del tempo ordinario. Anno A)

Il perdono rimane a noi nella misura che anche noi perdoniamo ai nostri “debitori”
“Il Signore perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità” afferma il Salmista e l’Autore del Siracide esorta con queste parole: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”.

Con la Colletta preghiamo: “O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli, crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa, per ricordare al mondo come tu ci ami”. Queste premesse per dire che il messaggio della Liturgia di questa 24ma Domenica del Tempo ordinario ci porta a definire il motivo della ‘necessità’ del perdono: perché Dio ci perdona per primo! A nostra volta siamo invitati a perdonare le offese perché altrimenti – stando alla pagina evangelica – il perdono ci viene ritirato.

La questione ci viene proposta a conclusione del IV Discorso di Gesù, dove Pietro si fa avanti per chiedere a Gesù fin quante volte deve perdonare il fratello che pecca contro di lui, “fino a sette volte?”. L’impostazione della domanda riflette l’indole buona di Pietro perché il numero 7, con il suo intrinseco simbolismo di totalità e compiutezza, contiene già i caratteri della positività e dell’apertura verso l’altro “che pecca contro di me”. Nell’Antico Testamento (come anche nella tradizione rabbinica) è presente l’invito a “non odiare nessuno” e a “dimenticare gli errori altrui” (Sir 28,9). Pietro che parla anche a nome di coloro di cui è “responsabile”, proviene quindi da una cultura religiosa già disponibile al perdono. Ma Gesù invita ad andare oltre la bontà d’animo di Pietro esponendo la parabola del “re” generosissimo e del “servo malvagio” in cui regna l’esagerazione (tipica del racconto parabolico) finalizzata a descrivere, in questo caso, l’illimitatezza dell’amore divino.

Il “servo malvagio” è infatti debitore nei riguardi del “re” di una somma, “diecimila talenti”, che era materialmente impossibile accumulare nel corso di una vita. Grazie alla testimonianza di Giuseppe Flavio possiamo apprendere che in un anno le tasse che venivano pagate ai Romani dagli abitanti della Palestina non arrivavano neanche a mille talenti. Figuriamoci se un servo poteva aver raggiunto un debito di diecimila talenti! Corrispondente alla realtà doveva invece essere il debito dell’altro servo: “dieci denari”. Quantificati materialmente, i rispettivi debiti equivalgono: “diecimila talenti” a circa 340 tonnellate d’oro, “dieci denari” a mezzo chilogrammo di argento. Quindi la sproporzione: il “servo malvagio” è debitore di una incalcolabile somma al “re” e un secondo servo è debitore di una modesta somma al “servo malvagio”.

Poiché la figura del re nella letteratura giudaica rimanda a Dio (Talmud), il “servo malvagio” è l’uomo che, in quanto creatura, ha un debito inestimabile nei riguardi di Dio, mentre quello che potrebbe avere un uomo nei riguardi del suo simile (il secondo “servo”) è irrisorio. Tuttavia, alla richiesta dell’uomo, “Abbi pazienza con me”, Dio stesso condona il debito che altrimenti sarebbe impossibile estinguere. A sua volta, all’uomo cui è stato condonato, spetta di condonare il debito dell’altro (10 denari, appunto!). Ma se pur avendo sperimentato l’inconcepibile generosità di Dio rimane “malvagio” non concedendo il condono a sua volta, “viene dato in mano agli aguzzini, finché non abbia restituito tutto il dovuto”. Questa minaccia è pesante e, se non ricorriamo all’approfondimento linguistico, rischiamo di tralasciarne tutta la profondità. Il sostantivo plurale “aguzzini” (basanistais) presenta la stessa radice del verbo greco (basanizo) che vuol dire “tormentare, torturare”, e l’evangelista Matteo usa questo verbo per indicare il tormento che avrebbero vissuto i due indemoniati gadareni (8,29) se non fossero stati liberati da Gesù. Chi non restituisce il perdono ricevuto da Dio, è destinato a vivere interiormente tormentato.

È vero, a volte il perdono costa troppo. Come fa a perdonare colui che ha subito un torto (violenza, calunnia, furto, …) con le aspre conseguenze che si riflettono sulla sua vita e su quella dei suoi familiari distrutti e sconvolti? L’atto eroico di elargire subito il perdono, magari fatto anche sinceramente, può gratificare e appagare momentaneamente, ma basta? Il perdono è qualcosa di molto profondo e anche liberante ma il primo a perdonare è Dio e il perdono rimane a noi nella misura che anche noi perdoniamo ai nostri “debitori”. “Lui ti vuole perdonare, ma non potrà se tu hai il cuore chiuso … perdoniamo come Dio, che quando perdona dimentica” (Papa Francesco). Se accogliamo il Suo perdono e il Suo amore, come non amare a nostra volta? “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”.

AUTORE: Giuseppina Bruscolotti