Lo Spirito capovolge Babele

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini Domenica di Pentecoste - anno B

Il Vangelo del giorno di Pentecoste si compone di due brani distinti, presi dal cosiddetto “discorso dopo la Cena”, cioè il lungo discorso di Gesù con i discepoli qualche ora prima del suo arresto. Durante le domeniche scorse ne abbiamo ascoltato alcuni passi. Gesù contempla l’avvenire immediato dei suoi, dopo la sua partenza, e guarda anche l’avvenire lontano, che riguarda noi radunati oggi attorno alla mensa della sua Parola e del suo Corpo. A tutti annuncia la venuta del Paràclito.

Il termine Paràclito non è di quelli che utilizziamo tutti i giorni; si tratta della trasposizione in italiano di un termine greco, che nel suo senso originario designa “colui che è chiamato in soccorso”. Nel linguaggio cristiano si è arricchito di significati: Colui che si prega, si invoca, che affianca, difende, consola, ma anche che spinge, trascina, talvolta travolge. Colui che Gesù promette è un Spirito multiforme ed efficace. La prima lettura narra gli avvenimenti della prima Pentecoste. L’episodio è diviso in due parti: nei primi versetti si racconta ciò che avvenne nel chiuso del Cenacolo, ossia l’effusione dello Spirito santo sui discepoli, là radunati insieme alla madre di Gesù (At 2,1-4); nella seconda l’afflusso della folla, incuriosita dal fragore che si era udito in città, e dalla presenza inaspettata di uomini sconosciuti che parlavano in preda allo Spirito. Incredibilmente, tutti li capivano, nonostante la diversità delle provenienze linguistiche (At 2,5-13).

Il racconto si conclude con lo stupore della folla: ognuno li sentiva parlare nella propria lingua, loro che venivano dagli angoli più remoti dell’Impero. Il fatto ci fu raccontato già ai tempi della cresima; ma forse ce n’è sempre sfuggito il significato profondo. Le letture della messa della vigilia di Pentecoste ce ne offrono una chiave di comprensione. La prima di esse narra l’episodio della torre di Babele. L’antico racconto narra della decisione di un gruppo di uomini di edificare una torre talmente alta da entrare simbolicamente in competizione con Dio. Questo intendono, quando dicono: “Facciamoci un nome”. Nel linguaggio delle sante Scritture “farsi un nome” equivale a reclamare la propria autonomia in tutto e da tutti, anche da Dio. Ma siccome l’uomo non può darsi un nome, ma solo “riceverlo”, perché solo Dio è il Nome che dà esistenza, energia e vita a chi vuole, la pretesa di dare vita a se stessi ebbe per conseguenza l’incapacità radicale di entrare in comunione.

È normale che fra popolazioni straniere ordinariamente non ci si intenda. Dunque a Gerusalemme stava accadendo qualcosa che incredibilmente rendeva gli uomini “comunicabili”. La realtà storica della molteplicità delle lingue è solo il segno di quelle misteriose barriere che dividono gli uomini, anzitutto dentro se stessi. In realtà tutti abbiamo difficoltà a comunicare, anche quando parliamo la stessa lingua o addirittura lo stesso dialetto. Questo avviene dovunque: in famiglia, per strada, a scuola, in ufficio, in fabbrica. All’inizio di ogni dissenso c’è sempre la difficoltà di intendersi. Sembra che le parole si siano logorate. Come è possibile, si domandano i più attenti, che pur avendone il desiderio, non ci si riesca? Che sia scesa tra noi una sorta di maledizione? La leggenda popolare attribuisce all’episodio della torre di Babele la differenziazione dell’unica lingua umana originaria nelle differenti lingue nazionali o tribali.

In realtà, quel giorno avvenne qualcosa di molto più grave: s’innescò il dramma dell’incomunicabilità. Non c’è chi non veda quanto questa realtà sia attuale e potentemente radicata in ognuno: le Scritture sante la chiamano “peccato”. Lo Spirito di Gesù Cristo, a Pentecoste, entrò con forza nella storia, perdonò il peccato e gli uomini sperimentarono di non essere più condannati a non capirsi. Un’altra parola presiede la liturgia di oggi: “testimonianza”. “Sarete miei testimoni” aveva detto Gesù. Accade infatti che, grazie alla discesa dello Spirito santo, alcuni poveri uomini divengono improvvisamente testimoni della Verità. E la loro testimonianza fu tanto efficace che molti di quelli che li ascoltavano si sentirono talmente coinvolti da chiedere: “Che cosa dobbiamo fare?” (At 2,37).

L’intero libro degli Atti degli apostoli altro non è che la narrazione di come la loro testimonianza sia stata fedele, contestando il “mondo” con i suoi sistemi di peccato. Oggi il compito di quella testimonianza è giunto alla nostra generazione, attraverso la storia. Essere cristiani non può essere considerata una situazione di tutto riposo, come non lo fu per quelli che ci hanno preceduto. Ci è chiesto di contestare un “mondo” che ci contesta, e tenta di ridurci all’insignificanza. Il Paraclito oggi è all’opera come il primo giorno. A noi il compito di accoglierlo.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi