Ma allora… chi?

Il verdetto della corte d’Assise d’appello, che scagiona Amanda e Raffaele, lascia irrisolto il mistero dell’omicidio di Meredith

Lunedì 3 ottobre la corte d’Assise d’appello ha “assolto per non avere commesso il fatto” Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Per la giustizia italiana, Meredith Kercher è stata uccisa da Rudy Guede in concorso con altre persone. La corte d’Assise aveva detto che i suoi complici sono Amanda Knox e Raffaele Sollecito, mentre per la corte d’Assise d’appello sono innocenti. Una verità giudiziaria che non è ancora definitiva, in attesa del verdetto della corte di Cassazione. La verità vera su quanto accaduto nell’appartamento di via della Pergola forse la conoscono soltanto i protagonisti.Amanda viene condannata a tre anni di reclusione per calunnia per le false accuse a Lumumba. Pena già abbondantemente scontata con i quasi quattro anni di carcerazione preventiva. I due imputati vengono subito scarcerati, ma il pubblico ministero, che aveva chiesto la loro condanna all’ergastolo, annuncia il ricorso in Cassazione.

Innocenti o colpevoli? L’indagine ha avuto un “peccato originale”: la fretta di chiudere il caso, forse anche per la pressione dei media. E così, a quattro giorni dalla scoperta del cadavere, con una conferenza stampa in questura, gli inquirenti ufficializzarono l’arresto dei presunti assassini: Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba. Conferenza seguita dalle rituali congratulazioni dei massimi rappresentanti delle istituzioni locali. A fare il nome di Lumumba era stata durante la notte Amanda Knox, che poi al processo ha accusato la polizia di averla “manipolata”. Lumumba è stato arrestato qualche ora dopo la confessione di Amanda, senza neanche essere stato interrogato per potere presentare un alibi. Alibi che poi gli ha fornito un professore svizzero rientrato appositamente in Italia per scagionarlo. Ha mostrato agli inquirenti lo scontrino delle consumazioni che aveva fatto al pub di Lumumba durante una sua vacanza a Perugia, proprio nelle ore in cui sarebbe avvenuto il delitto. Lumumba, che nel frattempo ha dovuto chiudere il suo pub, per ora ha avuto un risarcimento di poche migliaia di euro per l’errore giudiziario di cui è stato vittima. Stando alla corte d’assise d’Appello, anche Amanda e Raffaele sono vittime di un clamoroso errore giudiziario che è costato loro quattro anni della loro giovinezza rinchiusi in carcere. Questo perché, in base all’articolo 533 del Codice di procedura penale – hanno sentenziato i giudici -, la condanna deve essere inflitta “soltanto se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. “Ragionevoli dubbi” che per i giudici invece esistono, a cominciare dagli esami di laboratorio e dalle modalità con cui si sono svolti.

I periti incaricati dalla corte d’Appello hanno scritto ad esempio che il gancetto del reggiseno delle vittima, sul quale sarebbe stato riscontrato il Dna di Raffaele, venne recuperato 46 giorni dopo l’omicidio. “Sul pavimento – si afferma nella perizia – ove era prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli”. Il Dna sul gancetto era uno degli elementi più importanti che collocava lo studente sulla scena del delitto. Certo non hanno giovato alla ricostruzione della verità anche le lungaggini processuali, con udienze intervallate di mesi che hanno stupito i cronisti internazionali, abituati ad udienze che si succedono quotidianamente fino alla sentenza. Ma così funziona (o meglio, non funziona) la giustizia in Italia. Non solo per i grandi processi ma anche e soprattutto per le questioni più normali, dal debito non pagato alla lite di condominio.

LA VICENDA GIUDIZIARIA

Un procedimento giudiziario non ancora concluso che dura da quattro anni, tra ricorsi, perizie e superperizie, ed una sola certezza: Meredith Kercher, studentessa universitaria inglese di 22 anni, viene uccisa la sera del 1° novembre 2007 con una coltellata alla gola in un appartamento di via della Pergola a Perugia. Il cadavere seminudo della studentessa viene trovato il 2 novembre in camera da letto, coperto da un piumone. Quattro giorni dopo, il 6 novembre, la polizia arresta Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba Diya. Amanda, 20 anni, americana di Seattle, città gemellata con Perugia, è una delle coinquiline di Meredith e studia all’Università per Stranieri. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in Ingegneria, ha da circa una settimana una relazione con lei. Lumumba, 38 anni, originario dell’ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavora anche Amanda; è sposato ed ha un figlio di quasi due anni. Ad accusarlo del delitto è stata proprio Amanda. La testimonianza di un cliente del locale, un turista svizzero, lo scagiona ed il 20 novembre viene scarcerato. Lo stesso giorno a Magonza, in Germania, viene fermato Rudy Hermann Guede, 21 anni, ivoriano vissuto a lungo a Perugia dove è stato in affidamento presso una famiglia. Comincia il lungo iter processuale. Nel maggio 2008 il gip di Perugia Claudia Matteini archivia il procedimento penale nei confronti di Lumumba, mentre a giugno i pubblici ministeri Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l’atto di chiusura indagine che precede la richiesta di rinvio a giudizio. Per loro ad uccidere Meredith sono stati Amanda, Raffaele e Rudy che, sotto gli effetti di alcol e droga, volevano costringerla ad atti sessuali di gruppo. Rudy non può negare la sua presenza nell’appartamento del delitto dove ha lasciato tracce evidenti e chiede il rito abbreviato, una formula processuale che gli consente di ottenere uno sconto di pena.

Il 28 ottobre, a circa un anno dal delitto, il gup Paolo Micheli lo condanna a 30 anni di reclusione e rinvia a giudizio Amanda e Raffaele. Per loro il processo di primo grado in corte d’Assise comincia nel gennaio 2009 e si conclude il 5 dicembre successivo con la condanna di Amanda a 26 anni di reclusione e di Raffaele a 25. Il pm aveva chiesto per entrambi l’ergastolo. Nel frattempo era cominciato il processo di secondo grado anche per Rudy, al quale il 22 dicembre la corte d’Assise d’appello di Perugia riduce la pena da 30 a 16 anni. Sentenza confermata nei mesi successivi anche dalla Cassazione e che quindi diventa definitiva. Amanda a Raffaele ricorrono contro la loro condanna ed il 24 novembre 2010 si apre a Perugia il processo d’appello. I giudici accolgono la richiesta avanzata dalle difese per una nuova perizia del Dna sul coltello considerato l’arma del delitto e sul gancetto del reggiseno della studentessa uccisa. Elementi, questi, alla base della sentenza di condanna di primo grado. Nel giugno 2011 arrivano le conclusioni della perizia secondo la quale gli accertamenti tecnici svolti in precedenza dagli investigatori “non sono attendibili”.

PERUGIA TRA FASTIDIO E INDIFFERENZA

“Ma quando finisce ’sta commedia!”. Parole di un anziano perugino che cerca di farsi largo tra i furgoni delle televisioni che sostano in piazza Matteotti ed i gruppi di cronisti che ingombrano il marciapiede. È l’espressione del fastidio con il quale i perugini hanno vissuto la vicenda mediatica della loro città e del delitto di via della Pergola. Fastidio per quella immagine di città della droga e dello sballo. E poi la sorpresa dei cronisti giudiziari, abituati per i grandi processi ad aule di giustizia gremite… a Perugia, invece, niente di tutto questo. Solo alla fine, al momento della sentenza d’appello, in piazza Matteotti si è radunata una folla di alcune centinaia di curiosi, che hanno fischiato e urlato “vergogna” per la sentenza di assoluzione. Uno “spettacolo” certo non gradito al sindaco Wladimiro Boccali, che nelle ore precedenti la sentenza aveva diffuso una dichiarazione: “Su tutto, prima di tutto, e fuori da ogni dubbio c’è il dramma di Meredith e della sua famiglia, perché una ragazza poco più che ventenne uccisa in quel modo deve rimanere nei cuori di tutti noi. I perugini aspettano, come è ovvio, la decisione con interesse, ma non vedo esasperazioni. Comunque vada, resterà il ricordo di una vicenda che ha scosso profondamente la città. Qualunque sia il verdetto della giustizia, del quale bisogna solo prendere atto con rispetto, resta il dolore – era la conclusione del Sindaco – per quattro giovani vite segnate, in modi diversi, da un fatto tragico”.

IL PROCESSO MEDIATICO

La lettura della sentenza della corte d’Assise d’appello di Perugia, che ha assolto Amanda e Raffaele, è stata trasmessa la sera del 3 ottobre in mondovisione. Non solo dirette sulle televisioni italiane, ma anche sui più importanti canali televisivi inglesi e nordamericani (Cnn, Cbs, Fox News, Abc). Con informazioni ed immagini in tempo reale sui siti internet dei più prestigiosi quotidiani di Inghilterra e Stati Uniti. Ma non solo. Tra gli oltre 400 giornalisti accreditati a Perugia per seguire il processo c’erano inviati, fotografi ed équipe televisive di Francia, Germania ed altri Paesi europei ed asiatici, e perfino di Al Jazeera, la maggiore emittente televisiva del Qatar e del mondo arabo. “È stata una Caporetto dell’informazione – dirà dopo la lettura della sentenza il pm Giuliano Mignini. – Mai visto una tale pressione mediatica, non si può andare avanti così”. L’informazione ai tempi di internet richiede il coinvolgimento e la partecipazione. Ed ecco i sondaggi sui siti internet, o nelle dirette televisive.

Colpevoli o innocenti? C’è perfino un sondaggio condotto tra gli universitari italiani dal portale Universinet.it, con 6.130 risposte: colpevolisti 48%, innocentisti 44%. Anche giornalisti ed opinionisti, in questo grande salotto televisivo mondiale, si schierano. Tutto è ormai un talk show. La sera del 3 ottobre, quando arriva la notizia della sentenza di assoluzione, si sentono fischi e grida di “vergogna”. Applausi invece tra i furgoni delle televisioni americane. E pensare che prima della sentenza il presidente della corte di Assise di appello, Claudio Pratillo Hellman, aveva ricordato ai presenti che “non è una partita di pallone” e che “non c’è spazio per tifoserie contrapposte”. “Ricordiamoci che è morta una ragazza” aveva aggiunto, chiedendo “rispetto e silenzio al momento della lettura del dispositivo”. La mamma di Meredith: “Ma mia figlia non tornerà a casa” . Nel processo mediatico per la morte di Meredith c’è poco spazio per il dolore dignitoso dei suoi familiari, che rifuggono interviste e telecamere per poi accettare – all’indomani della sentenza – un incontro con i giornalisti. E lì non nascondono di non capire la sentenza di assoluzione, ma confermano la fiducia nella Giustizia italiana. “Chi sono le altre persone responsabili? – si chiede il fratello di Meredith. – La nostra famiglia non ha alcun interesse a vedere in prigione Raffaele e Amanda o chiunque dimostri di non essere colpevole. Rimane comunque l’interrogativo sugli altri responsabili, oltre a Rudy”. E poi la conclusione amara della mamma, Arline: “Resta il fatto che mia figlia non tornerà a casa…”.

AUTORE: Enzo Ferrini