Le parole giuste per pregare

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XVII Domenica del tempo ordinario - anno C

Il Vangelo secondo Luca dedica ben undici capitoli alla salita di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme (9,51-19,27): la liturgia ne fa la lettura quasi continua in queste domeniche d’estate. Durante questa “lunga marcia” Gesù prepara i discepoli – e oggi anche noi – alla futura missione di testimoni. In questo quadro di formazione permanente si inserisce l’insegnamento sulla preghiera. Anche oggi l’introduzione al brano evangelico è tutt’altro che superflua. Gesù sta pregando. Da altri brani sappiamo che solitamente la sua preghiera era molto prolungata. Questo dovette impressionare i discepoli, che chiesero di imparare anche loro. Aggiungono che anche Giovanni Battista aveva istituito una scuola di preghiera per i suoi discepoli.

Questo lascia trasparire la difficoltà che tutti avevano a farlo. Il problema non era la mancanza di formule: i discepoli, come ogni altro ebreo osservante, avevano a disposizione l’intero Salterio, composto di 150 Salmi, tutte le bellissime preghiere sinagogali e altro ancora. Al Maestro chiedevano di imparare un modo semplice ed efficace di relazionarsi con Dio. Avvertiamo anche noi oggi che utilizzare formule di preghiera è relativamente semplice; le difficoltà nascono quando vediamo le nostre domande restare senza risposta, nel non sapere come parlare con un Dio invisibile e spesso ignoto.

La risposta di Gesù fu il Padre nostro. Colpisce la diversità del Pater, come lo conosciamo da sempre, con questo che ascoltiamo oggi. La forma adottata dalla Chiesa Cattolica fin dagli antichi tempi, e che abbiamo imparato da bambini, è quella tramandata dal Vangelo secondo Matteo. Come si vede, le due formule differiscono nei particolari, ma sono uguali nella sostanza. La forma tramandata da Luca è più breve ed essenziale. Gli studiosi si domandano quale abbia insegnato Gesù. I pareri sono discordi; qui non abbiamo spazio per elencarli. Alcuni pensano che Gesù non abbia insegnato una formula precisa, ma piuttosto gli elementi essenziali che devono comporre ogni preghiera.

Anzitutto l’invocazione: Padre. L’uomo non può nemmeno provare a immaginare Dio, che è al di fuori della sua portata; ma deve pur cercare un’attitudine di fronte a Lui. Nel prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma che “Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Che cosa ci ha rivelato Gesù? Che Dio è il Padre. Noi siamo i figli. Negli ultimi versetti del Vangelo di oggi, questa rivelazione è resa plasticamente: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono!”. Come tutti sappiamo, il Pater è diviso in due parti.

Nella prima chiediamo che tutti al mondo lo riconosciamo come l’Unico, da cui tutti dipendiamo e che a tutti dona esistenza, energia e vita. Nel linguaggio biblico Egli è il Nome. Chiediamo anche che si realizzi il Suo piano nella storia e che nessuno vi metta ostacoli. Nella seconda parte chiediamo di avere quotidianamente il cibo che ci alimenta: non solo quello che riempie lo stomaco, ma anche quello nutre il cuore, la mente, la vita. Poi chiediamo di essere perdonati, perché anche noi perdoniamo ai nostri simili. Sapere di essere perdonati e perdonare a nostra volta è la garanzia di un vivere sereno e pacificato. In ultimo chiediamo che non ci lasci soli, in balia della prova.

Sono prove non solo le istigazioni al peccato, ma anche le difficoltà, le contraddizioni e tutte quelle circostanze che chiamiamo “croci”. Dopo la preghiera del Pater, Luca riporta una breve parabola, sulla certezza che “a chi bussa sarà aperto”, prima o poi. La narrazione è immaginaria, ma del tutto verosimile. C’è un tale a cui arriva un ospite improvviso durante la notte. Il tale non sa come fargli accoglienza, perché la dispensa momentaneamente è vuota. Senza farsi scrupoli, va casa di un amico, lo chiama da fuori e gli chiede tre pani. Giustamente scocciato a causa dell’ora importuna, gli risponde che è impossibile, perché a quell’ora tutti dormono: sveglierebbe moglie e figli. Ma l’amico insiste e alla fine, per levarselo dai piedi, si alza e lo accontenta. Per renderci conto del realismo della scena, non dobbiamo immaginare qualcosa di simile ai nostri appartamenti.

Le case della gente comune erano formate da un’unica stanza, in genere a pianterreno, che di giorno serviva per mangiare e di notte per dormire, su stuoie distese a terra. Per arrivare alla madia del pane e poi alla porta d’ingresso, l’amico ha dovuto scavalcare diverse persone, fare rumore e sentire mugugni e proteste. Ma l’invadenza dell’amico l’ha avuta vinta. Sembra incredibile, ma Dio si aspetta di essere scocciato.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi