La sete di possesso? Vanità…

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XVIII Domenica del tempo ordinario - anno C

Alla liturgia di questa domenica potremmo dare un titolo come questo: l’accumulo non salva la vita. La lettura evangelica è esplicita: “Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. La prima lettura, tratta dal libro biblico chiamato Qohèlet, con linguaggio diverso, dice sostanzialmente la stessa cosa. Paolo, nella seconda lettura, è più radicale: “Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Dinanzi a Gesù ci sono due gruppi di persone: una folla molto numerosa (Lc 12,1) e il gruppetto dei discepoli. Quel tale che chiede a Gesù di dirimere la questione dell’eredità con il fratello non è un discepolo, ma “uno della folla”.

Dicono alcuni studiosi che capitava che ci si rivolgesse a un rabbi, come a persona affidabile, per fare da giudice di pace. Gesù però si rifiuta, affermando che nessuno lo ha investito di tale autorità. La risposta negativa però mirava ben più lontano. Ne prese occasione per rivolgersi alla folla: “Fate attenzione…”. La risposta si articola in tre momenti: l’affermazione di carattere universale (vv. 14-15), la parabola confermativa (16-20), la conclusione parenetica (21). Proviamo a immaginare la scena: i due fratelli probabilmente sono ambedue presenti.

Il padre è morto recentemente. Uno dei due reclama giustizia, perché l’altro si rifiuta di applicare la legge, che stabiliva il modo di dividere l’eredità paterna. Ambedue evidentemente ritengono che la vita stia nel possesso. Per questa ragione, il primo si è impossessato di ciò che non gli apparteneva; il secondo, per la stessa ragione, non teme di trascinare davanti al giudice il proprio fratello. La risposta di Gesù rimette le cose in ordine: il vero problema non sta nella trasgressione della legge da parte di uno dei due, ma nel ritenere che il fondamento della vita stia nel possesso.

Tutti e due i fratelli ritengono che “più hai, più sei”. Gesù ricorda a tutti che la vita non coincide con l’avere. La parola greca che l’italiano traduce con “cupidigia” indica la brama di avere di più, la voglia di usurpare, la sete di dominio. Per rendere più realistico l’insegnamento, Gesù crea una parabola: maniera d’insegnare tipica dei rabbini del tempo. Il protagonista unico è un ricco proprietario terriero della Galilea. Quell’anno i raccolti nella zona si preannunciavano molto più abbondanti del solito. Fatti due conti, l’agrario prevede che i silos di sua proprietà non saranno sufficienti a immagazzinare tutto quanto i suoi contadini raccoglieranno per lui. Allora progetta strutture più capaci. I tempi sono ristretti, perché i giorni del raccolto si avvicinano. Nessun problema: costringerà i suoi operai a turni massacranti.

Intanto si compiace con se stesso, pensando che. con tutta quella roba accumulata, potrà godersi a lungo la vita senza pensieri. Ma non aveva messo in conto una variabile: la possibilità della morte; che invece arrivò inesorabile la notte successiva, forse per infarto. La conclusione di Gesù è rapida: così avviene di chi pensa solo ad accumulare per sé e non arricchisce presso Dio. Il male del ricco proprietario non fu di avere previsto un raccolto così abbondante e di averne ben organizzato la conservazione; ma di averlo fatto solo in vista di sé. I suoi contadini, i suoi operai non ne avrebbero in alcun modo partecipato. La parabola insegna che non si deve accumulare egoisticamente, ma spartire i propri beni; solo così si arricchisce presso Dio.

La prima lettura, come si è accennato in apertura, è tratta dal Qohèlet. Non abbiamo molte occasioni di ascoltarlo nelle liturgie domenicali. È uno scritto di carattere sapienziale di grande interesse, che indaga spietatamente sull’incapacità dell’uomo nel trovare un senso agli avvenimenti. Egli intuisce che il tutto ha un senso, ma riconosce di non riuscire ad abbracciarlo interamente, perché il suo orizzonte è limitato. La parola guida del libretto (appena 12 capitoli) è “vanità”; non nel senso che normalmente le diamo in italiano ma piuttosto nel senso etimologico di “vuoto”, inconsistenza e incomprensibilità, in qualche momento anche “assurdo”.

La liturgia di oggi riporta il primo versetto del primo capitolo e tre versetti del secondo. E in un brano così breve, la parola “vanità” torna ben sette volte. In 2,21 l’autore trova incomprensibile il fatto che “chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato”. Nel versetto successivo si domanda “quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?”. Confessa di non saperlo. Dopo tre, forse quattro secoli, sarà san Paolo a dare la risposta, quando scrive che il senso della sua vita e delle sue fatiche sta “nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi