Migranti. Uscire dalla paura. La lettera dei vescovi italiani

“La realtà del fenomeno [migratorio], la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare ‘processi educativi’ che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere ‘segno’ e ‘lievito’ di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona”. Lo si afferma nella lettera Comunità accoglienti – Uscire dalla paura (il testo completo di seguito) che la Commissione episcopale Cei per le migrazioni ha indirizzato alle comunità cristiane. “Leggere le migrazioni come ‘segno dei tempi’ richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada ‘più lontano’ e cerchi di individuare il perché del fenomeno”. I Vescovi invitano a utilizzare “un linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare. Le paure si possono vincere solo nell’incontro con l’altro e nell’intrecciare una relazione. È un cammino esigente, e a volte faticoso, a cui le nostre comunità non possono sottrarsi: ne va della nostra testimonianza evangelica”, come “sanno bene quelle comunità e parrocchie che in questi anni hanno deciso in vario modo di accogliere. Per questo è nostra intenzione promuovere nei primi mesi del prossimo anno un meeting di queste realtà di accoglienza”.

 

Comunità accoglienti
Uscire dalla paura

Lettera alle comunità cristiane
a 25 anni dal documento
“Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993-2018)

Introduzione
Venticinque anni fa, la Commissione ecclesiale per le migrazioni pubblicava il documento Ero forestiero e mi avete ospitato, interpretando e accompagnando il fenomeno dell’immigrazione nei suoi inizi e sviluppi in Italia “con gli occhi della fede”. A venticinque anni di distanza avvertiamo la necessità, come pastori, di condividere una riflessione sul tema dell’immigrazione: parola di aiuto al discernimento comunitario, di stimolo a rendere la nostra fede capace, ancora una volta, di incarnarsi nella storia, di gratitudine e di incoraggiamento a quelle comunità che già hanno accolto.

Ciò che ci spinge a prendere nuovamente la parola è il profondo cambiamento che in questi anni continua a segnare il fenomeno migratorio nel nostro Paese, per rispondere nuovamente alla domanda del Signore a Caino, richiamata da papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa: “Dov’è tuo fratello?” (Gn 4,9).

L’immigrazione nel 1993

L’immigrazione nel 1993 era un fenomeno “nuovo” ed emergente, di cui non si riusciva ancora a cogliere le dimensioni e le prospettive. Secondo i dati del Ministero dell’Interno gli immigrati regolari in Italia erano infatti 987.405, in maggioranza europei dell’Unione Europea e dell’Europa orientale (36,85%); seguivano gli africani (29,13%), gli asiatici (17,47%) e gli americani (15,95%); 559.294 erano stati i permessi di soggiorno per lavoro e 144.410 per ricongiungimento familiare; 7.476 le richieste d’asilo, 65.385 erano gli studenti nelle scuole; 10.000 i matrimoni misti e tra stranieri (3% del totale); 17.000 i nati nelle famiglie con almeno un genitore straniero.

L’immigrazione nel 2018

Dal 1993 ad oggi l’immigrazione è diventata nel nostro Paese un fenomeno sorprendente nel suo incremento, anche se negli ultimi anni esso si è fermato ed è aumentato invece il numero degli emigranti italiani.

Gli immigrati in Italia hanno infatti raggiunto e superato all’inizio del 2016 il numero di 5 milioni con un’incidenza sulla popolazione totale pari all’8,3%. Non dimentichiamo che il 52,6% di questi sono donne, portatrici di esigenze e sensibilità specifiche, e che nel 2016 sono arrivati in Italia più di 25.000 minori stranieri non accompagnati. Nel complesso, oltre il 50% dei migranti proviene da un Paese dell’Unione o dagli Stati dell’Europa Centro-Orientale non appartenenti all’Unione; il 22,9% del totale proviene da un solo Paese europeo, la Romania, e con cinque Paesi (Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina) che da soli hanno oltre il 50% dei migranti.

Considerando le ripartizioni territoriali, nell’insieme delle regioni del Nord risiede il 58,6% del totale della popolazione straniera; 2.400.000 sono i lavoratori e oltre 550.000 gli imprenditori immigrati; quasi 815.000 sono gli studenti stranieri nelle nostre scuole, di cui oltre il 50% nato in Italia. Nel 2016 circa 24.000 sono stati i matrimoni misti o tra immigrati (14,1% del totale dei matrimoni); 72.000 i nuovi nati da famiglie straniere (14,8% sul totale). Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti.

Mentre nell’ultimo triennio il numero degli immigrati è rimasto pressoché stabile ed è cresciuto il numero dei richiedenti asilo, il numero degli emigranti italiani è continuato a crescere: nell’ultimo anno oltre 124 mila italiani hanno spostato la loro residenza oltreconfine; secondo l’OCSE l’Italia è all’ottavo posto nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza dei nuovi immigrati. Non possiamo poi dimenticare che a fronte di 5 milioni di immigrati in Italia, 5 milioni di italiani sono oggi emigranti nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa.

Immigrazione, sfida pastorale

Nel Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018 papa Francesco, in continuità con il Magistero di Papa Benedetto e del Santo Papa Giovanni Paolo II, ha ribadito che «tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie responsabilità».

I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è «senza dubbio una delle più grandi sfide educative». Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche.

Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose.

Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese.

«L’opera educativa – hanno ricordato sempre i Vescovi italiani – deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. Particolare attenzione va riservata al numero crescente di minori, nati in Italia, figli di stranieri». Per quanto riguarda nello specifico l’educazione dei giovani all’integrazione, sembra importante richiamare qui il ruolo che potrebbero avere alcune delle realtà che ruotano attorno alle parrocchie, in particolare quella degli oratori e dell’associazionismo.

Vogliamo ricordare inoltre che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente.

“Siate premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,13)

La realtà del fenomeno, la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare “processi educativi” che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere “segno” e “lievito” di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona, come ci ricorda papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».

a. Le migrazioni “segno dei tempi”

Un processo che inizia con un atto di umiltà e di ascolto di ciò che l’immigrazione, con i suoi volti, le sue storie, le sue domande dice a noi, comunità cristiane. Si tratta di cogliere le migrazioni come “un segno dei tempi”, come hanno ricordato gli ultimi Pontefici: un luogo frequentato da Dio, che chiede al credente di “osare” la solidarietà, la giustizia e la pace.

Leggere le migrazioni come “segno dei tempi” richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno.

Prima ancora di “aprire” o “chiudere” gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici.

Papa Francesco ci ricorda la necessità di «avere “una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”. Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro». Si tratta di prendere coscienza dei meccanismi generati da un’economia che uccide e della inequità che genera violenza: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Significa riscoprire la capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani.

b. Uno sguardo purificato

Occorre avere uno sguardo diverso di fronte a coloro che bussano alle nostre porte, che inizia da un linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare. I termini stessi che spesso ancora utilizziamo per parlare di immigrati (clandestini, extracomunitari…) portano in sé una matrice denigratoria Se noi siamo parte di una comunità, essi ne sono esclusi.

c. Per una “convivialità delle differenze”

Incontrare un immigrato significa fare i conti con la diversità. La prima diversità è quella fisica, la più visibile: «La sua singolarità colpisce: quegli occhi, quelle labbra, quegli zigomi, quella pelle diversa dalle altre lo distinguono e ricordano che si ha a che fare con qualcuno. […] quel volto così altro porta il segno di una soglia». Egli è l’altro, non è colui che scegliamo di invitare a casa nostra, bensì colui che si erge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall’accadere degli eventi.

In questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno. «Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato.

Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore».

d. Dalla paura… all’incontro

Le paure si possono vincere solo nell’incontro con l’altro e nell’intrecciare una relazione. È un cammino esigente e a volte faticoso a cui le nostre comunità non possono sottrarsi, ne va della nostra testimonianza evangelica. Si tratta di riconoscere l’altro nella sua singolarità, dignità, valore umano inestimabile, di accettarne la libertà; significa riconoscere la sua peculiarità (di sesso, di età, di religione, di cultura,…) e desiderare di fargli posto, di accettarlo. Tutto ciò senza rinnegare la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma riconoscendo che ve ne sono altre ugualmente degne. Scopriremo una ricchezza inaspettata: occhi nuovi per guardare realtà note; tradizioni e abitudini diverse che aiutano a valutare le nostre; sofferenze patite che ci rivelano quanto accade lontano da noi.

Tutto questo lo sanno bene quelle comunità e parrocchie che in questi anni hanno deciso in vario modo di accogliere, anche a seguito dell’appello di papa Francesco del settembre 2015, appello che sta ancora producendo i suoi frutti. Per questo è nostra intenzione promuovere nei primi mesi del prossimo anno un meeting di queste realtà di accoglienza.

e. Dall’incontro… alla relazione

Da un incontro vero nasce la relazione e il dialogo: non più una semplice conoscenza dell’altro, non più solo un confronto di identità, ma una conoscenza “simpatica” dei valori dell’altro. Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. è nel dialogo, allora, che si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi, e siamo indotti a riflettere sui nostri condizionamenti culturali, storici, psicologici, sociologici: siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità. Nel dialogo, aperto alle persone di altre Chiese e di altre religioni, si allarga anche la comunione e la fraternità.

Questo è l’inizio di un cammino che può trasformare la possibilità della convivenza in una scelta consapevole.

L’immigrazione, con le reazioni di rigetto che talvolta suscita, mette in luce un atteggiamento presente nelle società occidentali e che non le è direttamente connesso: il crescente individualismo, che sempre più spesso si manifesta anche fra connazionali e addirittura all’interno delle famiglie.

f. Dalla relazione… all’interazione

è questo il passaggio più difficile. L’integrazione è un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità. «In conformità con la sua tradizione pastorale, la Chiesa – scrive papa Francesco – è disponibile ad impegnarsi in prima persona per realizzare tutte le iniziative (…), ma per ottenere i risultati sperati è indispensabile il contributo della comunità politica e della società civile, ciascuno, secondo le responsabilità proprie». L’opera della Chiesa nel campo della mobilità umana non può che essere sussidiaria all’azione dello Stato e delle istituzioni internazionali.
Conclusione

«La civiltà ha fatto un passo decisivo – scriveva il cardinale e teologo Jean Daniélou – forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) […]. Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo». È il passo che le nostre comunità devono saper compiere, non dimenticando l’importanza dell’ospitalità che porta all’incontro: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

Roma, 20 maggio 2018
Solennità di Pentecoste

CEMi – Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI