Non solo per “tesserati”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXVI Domenica del tempo ordinario - anno B

Il Vangelo di questa domenica va letto diviso in tre parti. Mc 9,38-40: episodio dell’esorcista estraneo. Intolleranza del discepolo Giovanni; da leggersi in parallelo con l’intolleranza di Giosuè (Num 11,25-29). Mc 9,41: quanto sono preziosi i discepoli! Sarà ricompensato perfino chi avrà dato loro solo un bicchiere d’acqua. Mc 9,42-48: insegnamenti sullo scandalo. Gesù aveva appena terminato l’insegnamento intorno al servizio dentro la comunità cristiana, quando arriva Giovanni, il discepolo prediletto, tutto trafelato, pieno di zelo per la purezza del gruppo, a denunciargli un tale che si permetteva di fare esorcismi utilizzando il Suo nome. Aggiunse pure che loro avevano cercato di impedirglielo, perché non faceva parte del gruppo.

Non era raro che ci fossero esorcisti ebrei, che, assolutamente in buona fede, lottavano contro il Maligno, appoggiandosi sull’autorità di personaggi indiscussi: Mosè, Isacco, Davide… Questo tale si appoggiava sull’autorità di Gesù; la cosa evidentemente funzionava. Che male c’era? Ma alcuni del gruppo di Gesù lo ritennero scorretto, perché non risultava “regolarmente iscritto”. Giovanni del resto non era nuovo a iniziative del genere; come quella volta, che insieme a suo fratello Giacomo, voleva far piovere fulmini su un villaggio di samaritani che si erano rifiutati di ospitarli (Lc 9,54). Oltre al rimprovero del Maestro, allora si beccarono anche il nomignolo di “figli del tuono”, vale a dire, più o meno, “Capitan Fracassa”.

Questa volta Gesù fu meno sarcastico; si limitò a dire: “Chi non è contro di noi, è per noi”. L’episodio parallelo, tratto dal libro dei Numeri, riferisce di un giovane che andò di corsa da Mosè a dirgli che c’erano due, “non iscritti”, che profetavano in mezzo all’accampamento. Giosuè, che da sempre era al seguito di Mosè, ci mise sopra un carico da undici: “Mosè, mio Signore, impediscili!”. Il mansuetissimo Mosè gli rispose di non preoccuparsi, anzi aggiunse: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!”. Come si vede, l’Antico Testamento è assolutamente in linea con il Nuovo. La reazione di Mosè prelude a quella di Gesù, che non ha previsto la Chiesa come un gruppo chiuso, ripiegato su se stesso.

Quando l’evangelista Marco scrisse questa pagina, lo fece anzitutto per la sua comunità, nella quale certamente si ponevano domande su questo versante: in che misura dobbiamo aprire le porte della comunità a chi non è dei nostri? Anche loro, come noi oggi, erano portati a difendere i confini. A questo punto Marco si ricordò le parole del Signore: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Con esse Gesù capovolgeva il particolarismo e la chiusura tipica delle comunità giudaiche. Il cristianesimo nacque “per riunire i figli di Dio dispersi” (Gv 11,51). Non si tratta perciò di escludere, condannare, rigettare, ma piuttosto di accogliere, comprendere, mostrare benevolenza.

L’episodio narrato nella prima lettura ci dà lo spunto per ricordare il compito profetico di ogni cristiano. Nel giorno del nostro battesimo siamo stati costituiti “membra di Gesù Cristo, sacerdote, re e profeta”. Ciascuno di noi è chiamato ad essere tale. Ma essere profeti, nel senso del linguaggio biblico, non ha niente a che vedere con la capacità di predire il futuro. Profeta è colui che è capace di interpretare gli avvenimenti, sia individuali che collettivi, alla luce della fede. La vita è un tessuto di avvenimenti significativi, che ci vengono incontro e ci interrogano. La nostra origine, i nostri destini, non sono regolati dal caso, ma da Dio. All’inizio della vita di ognuno c’è un piano, a cui è legata la sua riuscita o il suo fallimento. Essere profeti è scoprire il rapporto fra gli avvenimenti e quel piano.

Lo Spirito di profezia di Gesù ci è donato per leggere dentro questo intreccio; per noi e per gli altri. Il termine “scandalizzare”, che occupa insistentemente la terza parte del Vangelo odierno, va capita nel suo significato originario: “mettere un inciampo, far cadere”. È una parola a difesa della comunità dei discepoli, detti qui “i piccoli che credono in me”. Guai a chi pone ostacoli sul cammino di quelli che Dio chiama! Tutto è espresso con metafore molto forti, desunte dal linguaggio giudiziario, per significare l’assoluta necessità di rifiutare il male, il peccato, la tentazione. La mano, il piede, l’occhio simboleggiano la cupidigia, la ribellione, l’adulterio. Anziché rischiare di essere rosicchiato in eterno dalla morte – questo è il significato dell’immagine del “verme che non muore” – è preferibile entrare nella Vita monco, zoppo, guercio; là ci saranno dati occhi, mani, piedi bellissimi, in una dimensione nuova e inimmaginabile.

 

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi