Per colpire l’udito di Dio

Commento alla Liturgia della Domenica "Firmato" Famiglia

AltareBibbiaLa parabola del fariseo e del pubblicano è un insegnamento di Gesù riportato solamente dall’evangelista Luca. A quel tempo i farisei erano un gruppo religioso molto stimato all’interno della comunità a motivo della loro adesione rigorosa alla legge di Mosè. I pubblicani, invece, erano ebrei che collaboravano con l’Impero romano, riscuotendo a loro nome le tasse, e godevano di una fama pessima (anche Matteo l’apostolo era uno di loro), e venivano considerati peccatori pubblici. Vediamoli da vicino, questi due personaggi su cui Gesù ci offre di meditare. Il fariseo dichiara la verità: è vero che osserva attentamente la Legge e ha grande spirito di sacrificio. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescritto, ma due. Egli sta in piedi, con le braccia alzate e la testa rivolta verso l’alto. Ringrazia Dio, nella forma canonica della preghiera biblico-giudaica: la lode e il ringraziamento a Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini, e poi perché è ricco di opere meritorie.

ùOsserva attentamente la Legge e il compimento della volontà di Dio, anzi completa le prescrizioni rituali con pratiche supplementari. Di fatto, si riempie la bocca di parole, fa un monologo; non guarda Dio, ma se stesso con compiacenza. Non ritiene di aver bisogno né di perdono né di conversione. Non ha coscienza di essere peccatore e perciò non invoca la salvezza. Comincia con un ringraziamento a Dio e continua con l’auto-incensazione e la condanna degli “altri”. Il pubblicano, l’esattore delle tasse, è spaesato, confuso nel luogo del culto, tanto che se ne sta in fondo, quasi temesse di disturbare, di essere un estraneo. Non è neppure in condizione di assumere il contegno normale di chi prega. Si percuote il petto, prega con il corpo, non osa paragonarsi agli altri, non osa alzare gli occhi al cielo. Dimostra con i fatti la sua miseria spirituale, il suo peccato.È consapevole di essere un peccatore, sente il bisogno del cambiamento, di una rinascita e, soprattutto, ha la consapevolezza di non poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può solo sperare. Fa affidamento su Dio, nella sua misericordia, non su se stesso.

Gesù smaschera da subito l’ipocrisia del fariseo – potremmo tuttavia dire che il suo peccato non sta nell’ipocrisia, bensì nella pretesa di salvarsi da solo, grazie alle sue opere. Infatti la sua preghiera è una “richiesta di pagamento”: Dio dovrebbe retribuirlo perché lui non è come gli altri. Il fariseo disprezza il pubblicano nella sua intima presunzione. Dio però non lo possiamo ingannare; non possiamo sentirci al sicuro dietro le nostre posizioni; soprattutto se in noi esiste il disprezzo per il prossimo, chiunque esso sia. Abbiamo infatti spesso la convinzione di aver “capito tutto” su Dio, la fede, la vita e il prossimo. Ci mettiamo al posto di Dio, invadendo perfino i suoi “spazi di manovra”, cioè quei margini di errore in cui Egli sapientemente e abilmente riesce a muoversi per salvare a ogni costo qualcuno. Un esempio per tutti è il primo santo canonizzato personalmente da Gesù sull’altare della croce: il buon ladrone (Lc 23,40-43). Due modi di pregare si incontrano e si scontrano: la preghiera superba del fariseo e quella umile del pubblicano. Questi due “atteggiamenti” fondamentali dello spirito umano, l’umile e il superbo, dimostrano il loro vero valore: lo spogliamento del proprio io, la povertà di spirito, opposti all’arroganza egoista, manifestata con il complesso della superiorità morale.

L’insegnamento della parabola è chiaro e semplice: l’unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti a Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l’ha ricevuta come dono misericordioso dal Signore. Siamo tutti chiamati a camminare secondo lo Spirito, seguendo Cristo; dobbiamo costantemente cercare di uscire dalla schiavitù del peccato e progredire nella libertà dei figli di Dio. Per fare questo dobbiamo riconoscerci peccatori: ”Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1Gv 1, 8-9). Gesù ci insegna anche un’altra cosa: non basta pregare, ma è importante pregare come un povero. Il fariseo pregava come uno contento di sé, il pubblicano pregava umilmente come un povero. La preghiera del povero va dalla sua bocca agli orecchi di Dio. Dio non si può raggiungere, si può solamente ricevere. Non saremo capaci di salire fino a Lui, ma possiamo accoglierlo in noi. Bisogna dunque aprirsi, aderire, convertirsi, abbassarsi. Con le mani vuote, perché Egli possa riempirle, e il cuore disponibile perché possa colmarlo. Beati noi se sentiamo che la nostra preghiera è povera. Essa sale nel più alto dei cieli e fa già scendere qualcosa del regno di Dio nel più profondo della nostra anima. È importante pregare come un bambino da amare e soddisfare, come il Figlio del Padre.

 

AUTORE: Paola Portoricco; Flaviano Casagrande Moretti