Per salvarsi, l’Ue deve cambiare

Crisi. Si moltiplicano in Europa i piani di salvataggio: come orientarsi

Negli ultimi tre anni, corrispondenti alla fase acuta della crisi economica mondiale, sono stati coniati nell’Unione europea innumerevoli vocaboli, corrispondenti ad altrettante iniziative e contromisure atte a fronteggiare la recessione, a salvaguardare i bilanci statali, le imprese, i risparmi, a fornire risposte alla tragica situazione occupazionale. Si fa persino fatica ad orientarsi in questo “vocabolario della crisi”, che va dal Patto euro plus al Semestre europeo, dallo European Financial Stability Facility ad Europa 2020, dalla Procedura per gli squilibri eccessivi ai Programmi nazionali di riforma, passando ancora dal Patto di stabilità, dagli stress test sulle banche oppure dall’Analisi annuale della crescita. Qualche tempo fa, la Commissione Ue, nel tentativo di fornire un codice interpretativo di tale vocabolario, ha prodotto un ampio documento (a sua volta da decifrare), che ad esempio alla voce Europa 2020 spiegava trattarsi di un piano per andare oltre la fase recessiva, stimolando “la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” nel prossimo decennio. Europa 2020 “è basata – si legge nello stesso testo – su un meccanismo semplice ed efficace”. Sulla sua efficacia occorrerà vigilare, mentre sulla semplicità è lecito qualche dubbio, dato che tale strategia si fonda fra l’altro su 5 “obiettivi prioritari”, 7 “iniziative di punta” e ben 10 “impegni concreti” per il solo 2011. È ovvio che l’economia, nella sua complessità, abbia bisogno di termini specifici, elementi tecnici, decisioni operative per lo più incomprensibili al cittadino comune; ma è altrettanto vero che essa, avendo effetti sulla vita quotidiana delle persone e delle famiglie, ha bisogno a monte di un sistema di controllo democratico da ricondursi alla politica, e a valle di una capacità di “farsi capire”, così che gli stessi cittadini non si sentano scavalcati o tanto meno vittime di quanto succede nelle segrete stanze dell’economia e della finanza. Quanto registrato in numerosi Paesi, con la protesta degli indignados, e, con maggior virulenza, nelle piazze greche, dovrebbe funzionare da monito. Anche alcuni esiti elettorali recenti, che hanno ribaltato governi e maggioranze in Paesi duramente colpiti dalla crisi, come avvenuto in Irlanda e Portogallo, deve far riflettere. E non si possono escludere altre sorprese politiche: ad Atene il governo è stato di fatto costretto a dimettersi; in Italia la situazione è di massima allerta; in Spagna si attende l’esito delle imminenti elezioni politiche che segneranno l’uscita di scena di Zapatero; Germania e Francia hanno già avuto modo di saggiare a più riprese lo scontento popolare verso governanti del calibro di Angela Merkel e di Nikolas Sarkozy. Al punto in cui è giunta la crisi, e tenendo conto di quanto l’Unione europea, l’Eurogruppo (17 Paesi che adottano la moneta unica) e i singoli Stati membri hanno cercato di realizzare per superare l’impasse, è forse possibile individuare i prossimi passi. Schematicamente si può affermare che l’Europa comunitaria intende o, se si preferisce, deve: salvare la Grecia (le azioni intraprese in tal senso sono molteplici e nuovi aiuti giungeranno con la formazione del nuovo governo di coalizione); evitare l’estendersi del problema della stabilità dei conti nazionali ad altri Paesi, tenendo sotto controllo, anche grazie al Fondo monetario internazionale, le situazioni più a rischio, come quella italiana; proseguire nel processo di rafforzamento e regolazione del sistema finanziario e creditizio europeo; dar corpo alla tanto invocata governance economica (priorità comuni, mercato unico, competitività verso l’esterno…); individuare le modalità per rilanciare la crescita, che è la vera risposta alla crisi, puntando sull’economia reale, i commerci mondiali, le strategie comuni nei campi dell’energia, delle materie prime, delle infrastrutture, della formazione e della ricerca. Si impongono – se questi sono gli scenari – varie altre annotazioni, ma due su tutte appaiono lampanti. La prima riguarda il fatto che, in un sistema economico come quello comunitario, di estrema interdipendenza tra Stati e mercati, il coordinamento delle decisioni (la governance, appunto) non potrà che crescere, estendendosi probabilmente anche a campi rimasti finora esenti, come quello della fiscalità. La seconda, connessa alla precedente: la sovranità degli Stati in ambito economico dovrà per forza di cose rimodularsi, pur nel rispetto degli interessi nazionali e del principio di sussidiarietà. Rilanciando, per forza di cose, la solidarietà, che rimane alla base del grande progetto europeo.

AUTORE: Gianni Borsa