“Perché parli in parabole?”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XV Domenica del tempo ordinario - anno A

Le tre letture liturgiche di questa domenica hanno a che fare con la Parola, con il seme e con la fatica della sua crescita. Il Vangelo si può ascoltare, scandito in tre momenti: la parabola del seminatore (Mt 13,1- 9), la questione del “parlare in parabole” (10-17), la spiegazione della parabola da parte del Maestro (18-23). Per non entrarvi superficialmente, la prima cosa da capire è il senso dell’espressione “parlare in parabole”. Fin da bambino mi avevano detto che Gesù raccontava parabole per farsi capire dalla gente semplice, di scarsa istruzione; tant’è che usava esempi tratti dalla vita dei contadini, dei pescatori, come erano la gran parte dei suoi ascoltatori.

Credo che questa opinione sia ancora piuttosto diffusa. Per sapere se le cose stanno veramente così, dobbiamo ascoltare con attenzione la parte centrale del brano evangelico proposto. I discepoli chiedono a Gesù: “Perché parli loro in parabole?”. Esattamente la domanda che gli stiamo ponendo noi oggi. La risposta fu che egli parlava loro in parabole, perché “guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. E aggiunge che si compiva così la profezia di Isaia, che al suo tempo predicava: “Il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi…”, cosicché non vedono, non sentono e non comprendono. Per provare a ad entrare nel linguaggio di Gesù, cominciamo dal termine “parabola”.

Essa è un prestito dalla lingua greca, che a sua volta traduce un termine ebraico, che, in buona sostanza, vuol dire “enigma”. Dunque la parabola non è un raccontino ingenuo, per gente poco istruita, ma un vero enigma da sciogliere. (Era un metodo di insegnamento utilizzato anche nelle scuole rabbiniche). È come se Gesù in questa occasione dicesse: indovinate un po’ che cosa significa, per la vostra vita, per quella del mondo, che un seminatore uscì a seminare…? Non tutti sono in grado di sciogliere l’enigma, ma solo coloro che hanno l’orecchio aperto, ossia chi ha ricevuto il dono dell’ascolto, chi si pone dinanzi alla propria vita con sincera onestà, chi ha interesse per le cose di Dio. La parabola del seminatore si conclude con una frase apparentemente banale: “Chi ha orecchi, ascolti”.

Ma è tutt’altro che banale; non tutti infatti hanno la capacità di ascoltare. Come è chiaro, non è questione di timpani ben funzionanti o di padiglioni auricolari a norma, ma di una qualità profonda, che tocca le radici dell’esistenza. Alla fine della parabola, il maestro ordinariamente non scioglieva l’enigma, ma lasciava che lo facessero gli alunni, i quali giungevano alla conclusione al termine di una lunga catena di questioni e contro-questioni. Gesù invece, in questo caso, scioglie l’enigma. In seguito raramente lo farà. Siamo così al terzo momento di questo lungo brano evangelico; momento in cui viene finalmente sciolto l’enigma.

La prima affermazione di Gesù è decisiva: “Il seme è la Parola di Dio”. Molti tra noi sono così abituati a sentirla ripetere, che neppure ne sospettano la profondità. Chi non ha mai visto un seme? Se a me capita di passare vicino a una quercia e di raccogliere una ghianda, paragono le due cose, mi colpisce la sproporzione fra le due realtà, e rimango incredulo al pensiero del potere racchiuso in quel seme, del numero incalcolabile di informazioni che la permetteranno alla quercia di raggiungere la sua pienezza, della impressionante, sconosciuta complessità della sua programmazione. La Parola di Dio ha un potere che somiglia a quello del seme: genera la fede, l’accompagna nella crescita fino alla sua pienezza.

In conclusione, schematizzando un po’, Gesù dice che ci sono quattro modi di stare dinanzi alla Parola. C’è chi è totalmente chiuso, incapace di ascolto; questo è simile al seme che cade per la strada e non ha alcuna possibilità di mettere radici. Passano gli uccelli, lo beccano, lo portano via. Non è successo nulla. Come se non avesse mai ascoltato nulla. C’è chi solo superficialmente è aperto all’accoglienza della Parola, per la quale anche si rallegra; ma la mancanza di spessore interiore adeguato impedisce alla Parola di raggiungere lo scopo. C’è chi accoglie il seme, perché è bello, interessante; ma si rifiuta di rimuovere quanto potrebbe soffocarlo. Molte sono le realtà che possono soffocare la Parola seminata in noi, e Gesù ne enumera due: la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza. In ultimo c’è chi accoglie la Parola con la stessa gioia con cui le umide zolle autunnali accolgono i semi, li custodiscono, li tengono nascosti perché nessuno li rubi. Questi danno frutto; ma in misura disuguale: alcuni danno il trenta per uno, altri sessanta per uno, altri addirittura il cento.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi