“Perché proprio a me?”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini III Domenica di Quaresima - anno C

Il Vangelo di questa domenica è diviso chiaramente in due parti: la prima riferisce una notizia di cronaca nera e il relativo commento di Gesù (Lc 13,1-5); la seconda è una parabola sulla pazienza e la longanimità di Dio (6,9). Le due parti hanno in comune l’urgenza della conversione. Prima di entrare nel commento, proviamo ad uscire da un equivoco. Sia la parola “conversione” sia la sua sorella “penitenza”, nella percezione comune, contengono qualcosa che ha a che fare con la sofferenza ricercata.

Del resto, in italiano “penitenza” è vicina a “pena, penare, soffrire”. Né l’una né l’altra rendono ragione alle rispettive parole originali. In greco “penitenza” si dice metànoia, in ebraico teshuvàh. La prima significa cambiare mentalità; ossia cambiare il punto di vista su se stessi, sugli avvenimenti, su Dio. La seconda vuol dire fare ritorno; ritorno a Dio, che – secondo la parola del profeta – “è benevolo e volentieri perdona”. Nelle due lingue il centro del discorso è questo: decidere chi consideri perno della vita, te stesso o Dio? Convertirsi o fare penitenza, vuol dire: uscire da quell’ottica tolemaica che ti porta a considerare te stesso come l’asse del mondo, per passare a guardarti come un vivente amato da Dio, attorno a cui gravita la tua vita. Niente a che fare dunque con sofferenze autoimposte.

Detto questo, proviamo a capire correttamente la risposta data da Gesù a quei tali che gli riferirono la notizia di una strage compiuta dai militari romani a danno di alcuni galilei che stavano offrendo sacrifici a Dio. Dietro a quell’informazione, apparentemente neutra, si nascondeva la domanda classica: che delitto avevano commesso quei galilei per meritare tale punizione? Gesù li spiazza totalmente: la sventura non è necessariamente legata a una colpa commessa. La sofferenza, anche estrema, non va considerata automaticamente una punizione. Quei galilei, sacrilegamente uccisi dall’invasore romano, forse non erano più peccatori di altri, ma spinge piuttosto alla conversione. Alla notizia della strage, Gesù ne aggiunge un’altra, capitata nei pressi di Gerusalemme: era crollata una vecchia struttura, seppellendo un gruppo di giudei. Anche di loro Gesù dice che non erano necessariamente peggiori di altri, rimasti illesi. Anche in questo caso, Gesù rimarca l’urgenza della conversione.

La mentalità che collegava la sventura al peccato commesso era comune all’epoca di Gesù – la ritroviamo altre volte nei Vangeli (cfr. Gv 9,2) – ed è comune anche oggi. Chi di noi non ha sentito pronunciare parole come queste: “Che male ho fatto perché mi dovesse capitare questa disgrazia? Assolutamente non la meritavo”. Così dicendo, si attribuisce a Dio, o al destino, un’evidente ingiustizia. La mentalità che vi soggiace spinge a ragionare più o meno così: dato che ogni malvagità chiama una punizione, perché io sono punito senza avere commesso malvagità? Gesù spezza questa sorta di assioma, semplicemente negando che nella storia ci sia un collegamento diretto fra peccato e punizione.

Tutti andiamo incontro a incidenti o sventure, credenti e non credenti, perché tutti viviamo dentro la storia. Chi segue la mentalità corrente troverà sempre il modo di incolpare qualcun altro; chi pensa alla maniera di Gesù, fa buon uso della sofferenza, anche se ingiusta, approfittandone per la propria conversione. La seconda parte della lettura evangelica si muove in un clima più disteso. Non più notizie sanguinolente, ma una parabola agreste. Luca ci porta in una vigna dove è stato piantato un fico, che si ostina a non dare frutti. Il proprietario si dice deluso che per il terzo anno consecutivo vi trovi soltanto foglie; e chiede all’ortolano di tagliarlo: quell’albero gli sta solo sfruttando il terreno. Non solo è sterile, ma anche parassita.

L’ortolano chiede al proprietario di avere pazienza ancora per un anno; intanto gli zapperà intorno, lo concimerà. L’anno prossimo si vedrà: se saranno ancora solo foglie, allora il padrone farà calare la scure. Altre volte nella Bibbia si parla di vigne ben curate, ma improduttive. Così pure di alberi di fico sterili. Viene in mente il bellissimo canto del capitolo quinto del libro di Isaia. Anche lì c’è un padrone deluso, che dopo avere fatto il massimo per la vigna amata, non riesce a raccoglierne se non “acini acerbi”. Quel padrone allora decide di demolirla, perché sia calpestata, abbandonata e non se ne parli più. Nessuno intercede per la vigna, chiedendo al padrone di avere pazienza ancora per un po’; come avviene invece nella parabola evangelica, dove c’è il vignaiolo che non solo chiede al padrone di pazientare, ma si attiva perché l’albero esca finalmente dal suo letargo e si decida a fruttificare. L’albero di fico siamo io e voi. Gesù è il vignaiolo intercessore.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi