Quando una donna diventa madre

Festa della mamma. Qualche riflessione sul significato psicologico e spirituale, ma anche sociale, dell’esperienza della maternità

La maternità è un’esperienza squisitamente femminile, eppure viene celebrata maggiormente dagli uomini. Un po’ perché le donne temono di essere ridotte al ruolo materno, che è altro dalla maternità, un po’ perché la festa della mamma cede spesso a toni retorici che non toccano la reale esperienza delle donne. Non parliamo poi del sentire sociale italiano – e purtroppo spesso anche ecclesiale – che è ben disposto a elogiare le madri, purché non abbiano la pretesa di parlare della maternità come di una questione sociale. Mi sembra quindi più proficuo, piuttosto che celebrare la Festa della mamma, riflettere sull’esperienza materna e sul valore che essa ha per tutti.

Una donna inizia ad essere madre perdendo la forma del proprio corpo e imparando così dalla carne che deve mutare anche la forma della propria mente e del proprio spirito. Diventare madri, infatti, vuol dire vivere per un altro, fargli spazio dentro di sé, dargli la propria vita in modo che possa vivere. Le parole di Cristo guidano questa trasmutazione che le donne vivono drasticamente e a volte duramente: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il corpo dato per voi”. Diventare madri quindi è scoprire di essere cibo per un altro e scegliere di esserlo: facendo spazio nel proprio corpo, nutrendo con il proprio corpo, riversando il proprio amore su chi non riesce nemmeno a ricambiarlo. Nell’episodio in cui Gesù guarisce l’emorroissa, gli evangelisti raccontano che Gesù sentì una forza che usciva da lui e chiese chi lo avesse toccato. Le madri sanno chi le tocca continuamente, dentro il corpo e poi fuori, e sentono la forza che esce da loro, una forza capace di far crescere e di sanare, ma che chiede un prezzo. La maternità infatti comporta una continua spoliazione di sé per sintonizzarsi sui bisogni, i desideri e i problemi dei figli. Questo conduce gradualmente a mortificare persino l’istinto materno di protezione e un certo senso di superiorità che ci portiamo dietro per aver visto nascere i nostri figli, perché mentre essi crescono è necessario riconoscere la bellezza di ciò che diventano e godere di ciò che sono. Si deve gradualmente diventare sorelle dei propri figli, soprattutto quando si condivide con loro la fede, arricchendoci della novità che essi sono per il mondo.

Anche Maria ha compiuto questo percorso: non è rimasta gravida tutta la vita, né per tutta la vita ha stretto in braccio un lattante. È stata di fronte a Cristo che cresceva, rappresentando per lui il volto umile e fedele di chi serve Dio e insegnandogli l’amore e l’obbedienza, poi si è messa alla sua scuola e da discepola perfetta si è lasciata trasformare da quel Figlio cui ora somiglia perfettamente, unita a lui nella fede e nella gloria. Forse si diventa madri per imparare ad essere discepole, e questo ci spiega perché le donne non vogliono rinunciare a vivere la propria vita in ambiti diversi da quello domestico. Forse è proprio l’esperienza di essere dono per un altro che diventa lo stimolo per fare di sé un dono in altri modi. Ma se l’esperienza materna è una forgia di soggetti capaci di servizio, messo a disposizione di tutti, a cominciare dai padri, allora è necessario che tutti riconoscano il valore sociale (ed ecclesiale) della maternità, non più predominio e prigione delle donne, ma risorsa feconda per le madri, i padri, i figli, la Chiesa e la società intera. Quando questo sarà chiaro, traducendosi anche in comportamenti sociali e legislativi, allora potremo davvero festeggiare.

AUTORE: Simona Segoloni Ruta