Quanti sono i corrotti?

Ci sono state polemiche intorno alla frase del magistrato Davigo secondo cui i politici italiani rubano tutti. Ma lo ha detto davvero? No. Ha detto che nella politica italiana si ruba, e non è la stessa cosa. Ma quanti sono quelli che rubano? D’accordo, non tutti. La maggior parte? No, non sarebbe giusto nemmeno questo. Una minoranza, dunque; ma quanti? Il 10 per cento? Il 5 per cento? Parliamo, più in generale, di quelli che sfruttano la loro posizione per ricavarne vantaggi personali illeciti. Saranno anche pochi rispetto al totale, ma sono comunque troppi, perché sono quanti bastano perché la politica nel suo insieme porti la loro impronta. Sono quelli che sanno meglio quello che vogliono, sono più decisi, più coalizzati; come accade in tutte le cose della vita, chi è spinto da interessi più forti, prevale. Ma sono aiutati anche dal fatto che gli altri – anche senza essere veramente complici – subiscono, si adattano, stanno al gioco, non considerano importante opporsi. E lo stesso fanno i loro elettori. Ci può essere poi un’analisi ancora più radicale e spietata: quella che ha fatto Ernesto Galli della Loggia in un editoriale martedì scorso: i politici fanno cose illecite perché la gente vuole cose illecite dalla politica (anche qui non tutti, direi io, ma comunque in troppi): favori, raccomandazioni, condoni, sperpero del denaro pubblico per arricchimenti privati. E si torna all’evasione fiscale di massa, all’abusivismo edilizio di massa, nel disinteresse degli amministratori pubblici quando non con la loro complicità. Si torna sempre allo stesso punto: la ricchezza maggiore di una nazione è l’onestà dei suoi cittadini, nel pubblico come nel privato. E non basta cambiare una legge per ottenerla. L’onestà è efficace se viene dal profondo e se tutti ci credono. Vale l’insistente predicazione del Papa contro la corruzione; con la precisazione che nel suo linguaggio la “corruzione” non è uno specifico reato del Codice, bensì un termine generico per indicare il radicamento nel male, l’illecito come scelta di vita, come identità della persona. Nel privato, e anche nel pubblico.

AUTORE: Pier Giorgio Lignani