Ricordo di Romero martire

Era il 24 marzo 1980. Sono passati 27 anni da quel giorno. Erano circa le ore 18 e mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedaletto per i malati incurabili. Era arrivato all’offertorio: mentre stava deponendo le ostie sul corporale, dal fondo della cappella partì un solo colpo di fucile, uno solo, e gli scoppiò dentro il cuore. Romero si aggrappò istintivamente all’altare e si rovesciò addosso le ostie che teneva in mano, cadde al suolo in una pozza di sangue. Quel giorno la vittima, l’ostia, era lui, il difensore dei poveri. Un martire la cui testimonianza è una di quelle preziosissime eredità che sostengono gli uomini e le donne miti che, come lui, non si rassegnano all’ingiustizia e all’odio che stravolgono il mondo. La testimonianza dei martiri segna la strada di questa Quaresima che ci porta verso la Settimana santa, verso la passione, morte e resurrezione di Gesù. Dare la vita per gli altri è il senso dell’essere cristiano, e per questo Romero non è un eroe, ma un cristiano che, come tanti altri, ha vissuto il Vangelo sino in fondo. Sono cristiani come tutti i cristiani, vescovi come tutti i vescovi. Anche loro, come noi, hanno (avuto) paura di morire. Ma non si sono fermati davanti alle minacce. Hanno continuato ad amare e quindi a parlare. E le loro parole, le loro azioni non sono impregnate di odio o di violenza. I martiri non emanano violenza. Da essi solo parole, e forza, di amore. Mons. Romero, commentando le beatitudini, affermava con estrema chiarezza: ‘Ci sono persone, soprattutto giovani, che non credono che con l’amore delle Beatitudini si fa un mondo migliore, ma optano per la violenza, per la guerriglia, per la rivoluzione. La Chiesa non farà mai sua questa strada, sia ben chiaro una volta di più; la Chiesa non sceglie queste strade di violenza, e tutto quello che si dice in questo senso è una calunnia’. Sì, per mons. Romero, solo i miti – come recitano le Beatitudini – ‘erediteranno la terra’. Ce lo ricorda anche la memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, che celebreremo nella prossima domenica. Il profeta di Nazareth entra in città a cavallo di un puledro, come un uomo mite ed umile, ma certo non rassegnato ad un mondo ingiusto e violento. Entra come un pastore buono che è pronto a dare la sua stessa vita per amore di tutti. I testimoni martiri del nostro tempo hanno seguito Gesù: non sono rimasti fuori della ‘città’. Sono entrati dentro di essa, assieme a Gesù, si sono immersi dentro la complessità e la pericolosità della vita della società di oggi, e hanno portato il loro contributo perché si realizzasse una convivenza più umana e più bella per tutti, a partire dai più deboli. E lo hanno fatto pur sapendo i pericoli che correvano. Appunto come Gesù, che ebbe a dire: ‘Non è buono che un profeta muoia fuori da Gerusalemme’. Non possiamo dimenticarli, e soprattutto non dobbiamo ignorare il loro insegnamento fatto di parole e di vita. Non possiamo vivere scarichi d’amore e di passione, forti semmai solo del nostro egocentrismo. Mi chiedo: è possibile, oggi, vivere, senza essere ‘martiri’, ossia testimoni d’amore? Dopo l’assassinio di un suo prete, Romero disse: ‘Non tutti avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arrivi la nostra ora di render conto, possiamo dire: Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data’.

AUTORE: ' Vincenzo Paglia