Rimanete nel mio amore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia VI Domenica di Pasqua - anno B

“Amiamoci gli uni gli altri”. È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici anzi sino al dono della stessa vita.

Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: “Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (I Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco “eros”.

L’apostolo usa, invece, la parola “agape” per indicare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli. Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: “Inquietum est cor meum…”.

Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del “cuore inquieto di Dio”: egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto “da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

L’amore di Dio, potremmo dire, “è in discesa”, si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, “sino a dare la vita per i propri amici” come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: “In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (I Gv 4, 10). E’ Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28). Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù.

L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell’agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti.

Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull’attrazione “naturale” sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: “Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!”.

Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Comelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).

AUTORE: Vincenzo Paglia