Se l’amore è “comandato”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini VI Domenica di Pasqua - anno B

Il vangelo di questa sesta domenica di Pasqua è la continuazione di quello che abbiamo ascoltato domenica scorsa, dal cap. 15 del Vangelo secondo Giovanni. Oggi l’evangelista riprende alcuni temi e ne introduce altri, intrecciandoli, secondo un procedimento tipico della mentalità semitica. Il tema che apre e chiude il brano liturgico è “il comandamento dell’amore” al prossimo. Poi si parlerà di gioia, di amici, di scelta gratuita da parte sua, e tornerà anche il discorso sui frutti. Il comandamento dell’amore: il brano di oggi termina con le parole “questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). Al nostro orecchio moderno, occidentale, secolarizzato, l’espressione trova qualche ostacolo ad essere accettata: si può forse amare su comando? C’è qualcosa di più spontaneo e istintivo dell’amore? Un ragazzo e una ragazza si innamorano forse per imposizione? Per intendere correttamente il pensiero di Gesù, dobbiamo chiarirci un paio di parole, il cui senso sembra ovvio, ma in realtà non sempre lo è: amore e comandamento. Cominciamo con la seconda.

Il termine “comandamento”, nel nostro consueto modo di intendere, ha a che fare con un obbligo imposto dall’esterno, come – ad esempio – non uccidere, non rubare, non passare con il semaforo rosso, paga le tasse, ecc. Nel linguaggio della Bibbia esso è molto più variegato e ha a che fare fondamentalmente con la verità della vita; con la grammatica del vivere insieme. Ossia il comandamento rivela anzitutto ciò che è autentico e ciò che non lo è. L’amore reciproco è la verità della vita. In italiano a questa parola abbiamo fatto significare tutto e anche il suo contrario. La usiamo per parlare del rapporto erotico, ma anche nel senso di spendere la propria vita per il prossimo. E molti altri significati intermedi. Il significato in cui lo intende Gesù è esplicito nel versetto 13 di questo capitolo: “dare la vita per i propri amici”. Cosa appunto che Egli ha fatto. Dare la vita per gli amici non significa necessariamente aspettare che ci condannino materialmente alla crocifissione, quanto piuttosto uscire da se stessi per entrare nelle sofferenze dell’altro, comprenderle e condividerle. Ultimamente ho saputo di un rabbino che riferiva un dialogo tra due vecchi ebrei aschenaziti.

“Boris, tu mi ami?”

“Certo che ti amo”.

“Boris, tu sai ciò che mi fa soffrire?”

“Come posso sapere che cosa ti fa soffrire?”

“Allora, Boris, se non sai neppure che cosa mi fa soffrire, come puoi dire che mi ami?”

Conoscere e partecipare alla sofferenza dell’altro è alla base del perdono vicendevole. Il modo forse più immediato di capirlo è osservare il rapporto di coppia. Appena ci si sposa, ci si riguarda negli occhi, si sogna un avvenire radioso, tutto va molto bene. Può darsi che si tratti di amore autentico; ma non è sicuro. Non hanno ancora verificato la qualità del loro amore. Passano le settimane, i mesi, gli anni. Poi una sera lui rientra stanco, nervoso e trova che anche lei è stanca e nervosa.

Nasce dentro la domanda: mi amerà ancora? Nasce pure qualche alterco. Si spegne l’audio. Non ci si capisce più. Passano un paio di giorni e ognuno, pur nella propria sofferenza, prova a comprendere quella dell’altro e coraggiosamente si dicono: “Scusami”. E si perdonano. Bello, vero? Sappiamo che non sempre accade. In ogni caso, lì comincia a esserci amore vero. La pietra di paragone su cui misura la qualità dell’amore è il mutuo perdono, sempre rinnovato. Bisogna dire che la cosa non è facile, né purtroppo molto comune, perché siamo tutti cresciuti in contesti rivendicativi: tu mi hai fatto questo e io te lo devo rendere; io non dimentico, io. L’esperienza di coppia è il paradigma di ogni genere di relazione possibile: il condominio, il quartiere, la vita civile e politica. Senza il perdono, domina la legge della giungla.

Il rifiuto del perdono è la radice di ogni guerra. La pace non comincia dalle Marce, ma dalla partecipazione e dal perdono. Ora possiamo capire il “comandamento” di Gesù: Egli ha il diritto di comandarci di amare, perché ha messo in pratica per primo il precetto “amate i vostri nemici”. Da nemici che eravamo, ci ha fatto diventare suoi amici, perdonandoci. Non ha detto: “Non abbiate nemici”. Tutti ne abbiamo; tutti ne hanno. Ci sono persone che non possono sopportarci e altre che non riusciamo a sopportare. Spesso sembra che non ci si possa fare nient’altro; tranne perdonare. Il brano liturgico si chiude con una parola di Gesù sulla scelta. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Subito prima aveva detto che li considerava amici, non servitori. Il servitore di casa era lo schiavo, che, pur facendo parte della famiglia, era considerato una “suppellettile”, e non era messo a parte delle cose intime. I discepoli invece fanno parte della famiglia del Padre, perché il Figlio li ha resi gratuitamente liberi, comunicando loro una parola di libertà.

AUTORE: Bruno Pennacchini, Esegeta, già docente all’Ita di Assisi