Si scrive Ue si legge Pace

La cerimonia di consegna del Nobel all’Unione europea. L’Unione è il punto di arrivo di un lungo cammino. Da cui ripartire oggi

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Il Nobel all’Ue: un premio al futuro

Si è corso il rischio, alla cerimonia di consegna del Nobel per la pace, che la giornata si trasformasse in una scontata rievocazione del processo di integrazione, con la prevalenza della nostalgia rispetto a una sana riflessione sulle ardue sfide attuali e sul futuro dell’Ue. Ma, a ben guardare, una parallela e onesta rilettura del passato e del presente hanno offerto alcune chiavi di lettura per interpretare questa difficile fase di transizione del cammino comunitario.

Quando il presidente del comitato che assegna il riconoscimento, Thornbjorn Jagland, nel suo discorso ufficiale si è soffermato sulla fondamentale rilevanza della pacificazione franco-tedesca del secondo dopoguerra, vera pietra miliare della costruzione europea, la cancelliera Angela Merkel e il presidente François Hollande si sono alzati in piedi, stringendosi le mani e sollevandole al cielo in un gesto semplice, per quanto plateale, di amicizia. C’è da immaginare che più di un pensiero sia corso alla vera o presunta diarchia Berlino-Parigi che reggerebbe le sorti dell’attuale Ue, così come accadeva in passato per la Comunità economica europea (Adenauer-Schuman, Adenauer-De Gaulle, Kohl-Mitterrand, Merkel-Sarkozy…).

Del resto è innegabile che i primi passi della Comunità siano stati concepiti e realizzati proprio con l’intento ricostruire la fiducia reciproca, e poi una intesa duratura, tra le due sponde del Reno, da sempre contese e tradizionali campi di battaglia nelle guerre ottocentesche e in quelle mondiali del secolo scorso.

Dunque il Nobel della pace si spiega nella misura in cui il processo politico e diplomatico che ha portato all’Ue – con il Trattato di Maastricht e ora con quello di Lisbona – era stato concepito e perseguito con determinazione per superare le rivalità tra Francia e Germania mediante la costruzione di interessi comuni e di una solidarietà concreta che non a caso sono i concetti cardine della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, momento fondativo della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), e poi della Cee e in ultimo dell’Ue. Il testo declamato con voce solenne dall’allora ministro degli esteri francese Robert Schuman è – riletto ai nostri giorni – di una capacità prospettica fuori dal comune: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi proporzionali ai pericoli che la minacciano”. E più avanti: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania”.

L’Europa delle 12 stelle su sfondo blu parte da qui e va riconosciuto che, nel bene e nel male, sono state spesso Germania e Francia il “motore” dell’Unione.

Ma il Nobel “non è un premio al passato, riguarda piuttosto il nostro domani”, hanno affermato i leader politici nazionali (almeno quelli presenti il 10 dicembre a Oslo e che credono all’integrazione), i responsabili delle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, i commentatori, le anime della società civile – fra cui la Chiesa cattolica – che non cedono ai richiami populisti e nazionalisti alimentati dalla crisi economica.

I leader Ue Van Rompuy, Barroso e Schulz ricevono il premio Nobel per la pace

Infatti i discorsi ascoltati nel municipio della città nordica hanno saputo andare oltre la commemorazione. Sono risuonate parole-chiave di un’Europa che accetta i moderni “campi di battaglia” globali (economia, demografia, migrazioni, ambiente, energia, internet, multicultura…): con un vocabolario che comprende termini quali diritti, sviluppo, libertà, democrazia, fiducia, giustizia, euro, solidarietà, competitività, dialogo, apertura al resto del mondo. Senza trascurare la parola “compromesso” – inteso in senso nobile -, ovvero accordo al più alto livello possibile per procedere verso una sintesi ambiziosa, non scontata, tra interessi parziali e generali, nazionali e comunitari. Sintesi che qualcuno non rinuncia a chiamare “bene comune europeo”.

L’incontro virtuoso tra la storia e l’oggi dell’Ue, orientato alla realizzazione dell’Europa di domani, si rispecchia nei nomi declamati nell’elegante auditorium della capitale norvegese – da Erodoto a Monnet, da Willy Brandt a Wojtyla, da Gorbaciov a Walesa – non meno che nei giovani volti dei quattro studenti che facevano parte della delegazione ufficiale dell’Unione, assieme ai presidenti di Consiglio, Commissione e Parlamento europeo.

L’Europa, cantiere aperto sessant’anni or sono, ha più di una ruga, sente il peso di questa complessa stagione, fa i conti con recessione, disoccupazione e instabilità dei conti pubblici. Ma, ugualmente, guarda avanti. Di Europa c’è bisogno: è una “comunità di valori” e allo stesso tempo uno strumento per produrre quei risultati e benefici che i suoi 500 milioni di cittadini più o meno consapevolmente si attendono.

AUTORE: Gianni Borsa