Siamo i tralci della Vite – Vita

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini V Domenica di Pasqua - anno B

A somiglianza di domenica scorsa, anche oggi il Vangelo ha inizio con quel solenne Io sono che conosciamo dal Vangelo secondo Giovanni. Domenica Gesù si presentava dicendo: “Io sono il pastore, quello bello”, oggi si presenta con le parole: “Io sono la vite, quella vera”. L’immagine della vigna attraversa tutto l’Antico Testamento, figura dell’antico popolo dell’Alleanza. Il brano, forse più celebre, si trova nel libro del profeta Isaia all’inizio del capitolo quinto (5,1-7). Cantico d’amore che Dio scioglie per la sua vigna, esso parla di una piantagione di scelte viti, sopra un fertile colle, che Dio circondò di muretti protettivi, perché le bestie selvatiche non la danneggiassero, che vangò, e a suo tempo potò; vi aveva perfino costruito in mezzo una torre con un tino, in vista della vendemmia.

 Da tutta questa cura e attenzione si aspettava frutti abbondanti, ma quando andò a vedere, rimase deluso: trovò solo uva selvatica. Il canto continua con il lamento del vignaiolo, che si domanda: “Che altro dovevo farle che non abbia fatto? Eppure…”. Dio lamenta l’ingratitudine, l’incuria del suo popolo. Gesù riprende l’allegoria, ma ne cambia radicalmente il senso: egli stesso è la Vite, quella vera; l’antica vite non era la vera, ma solo un’ombra. Il vignaiolo è il Padre. Poi l’allegoria si amplia: i suoi discepoli – noi – siamo i tralci, chiamati a portare frutto. Si sa che, per produrre uva buona e abbondante, la vite ha bisogno di cure: i tralci improduttivi vanno tagliati, gli altri vanno potati perché producano di più. Il Padre lo fa. Con i discepoli lo ha già fatto, per mezzo della parola di Gesù. Si sa anche che se il tralcio non è attaccato alla vite non può portare frutto. Nasce così l’esortazione di Gesù a rimanere attaccati a Lui. Non c’è altro modo per essere fecondi.

Molti di noi conoscono da tempo questa pagina, incredibilmente ricca di valore simbolico; ma chissà se ci siamo entrati dentro abbastanza? Il simbolo, del resto, non esaurisce mai la sua ricchezza; è possibile sempre andare oltre. Abbiamo due figure fondamentali che attendono di essere approfondite: il vignaiolo e la vite con i suoi tralci. I due simboli sono talmente intrecciati che ciascuno esiste in funzione dell’altro: il vignaiolo è tale perché c’è una vigna di cui avere cura; la vigna esiste perché c’è il vignaiolo che la cura.

D’altra parte, la vite non può produrre frutti se non attraverso i tralci. Così come un’unica linfa anima tutto, dalle radici, al ceppo, ai tralci, un’unica Vita lega tutto: ha origine dal Padre, che la comunica al Figlio, e Lui ai figli per mezzo dello Spirito santo. È ciò che la dottrina cattolica chiama grazia santificante. Pensiamo: chi rimane attaccato a Gesù Cristo, vive della stessa, inesauribile vita di Dio. Del tutto gratuitamente. L’esortazione di Gesù a rimanere in Lui, attaccati come tralci alla vite, non è un incitamento moralistico, ma la condizione imprescindibile che permette di godere della stessa vita della vite. Così la vita, che ci è offerta in abbondanza, ci farà vivere come Gesù; con Gesù; fraternamente.

Certamente ognuno è libero di scegliere se vivere attaccato alla vite, oppure tentare di esistere autonomamente, cercando vita da altre parti. Su questa scelta si gioca l’essere cristiani, o no. Non a caso, nei pochi versetti che abbiamo ascoltato, la parola “rimanere” è ripetuta sette volte. Più avanti sarà ripetuto ancora: “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9-10). Il verbo è denso di significato. Equivale ad “abitare”, abitare nel Suo amore; altre volte Gesù aveva parlato anche di “abitare nella sua Parola”. Più in alto abbiamo letto che i discepoli sono già potati e mondati dal Padre, avendo accolto la Parola del Figlio.

La Parola di Gesù ha un potere purificativo perché contiene in sé Spirito e Vita. Siamo dentro questo misterioso circuito: mentre noi abitiamo nella sua Parola, nello stesso tempo Essa ci abita. Gesù insiste ripetutamente sul “portare frutto”. Che cosa vuol dire concretamente “portare frutto”? Ne troviamo una risonanza in uno scritto di Paolo apostolo, che enumera i “frutti dello Spirito”. Dice: “Frutti dello Spirito sono: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Se rimaniamo attaccati alla Vite, tutto questo riceviamo in dono; di che cosa altro avremo ancora bisogno, per sperimentare una pienezza possibile su questa terra? Attenzione, non si tratta di frutti dello sforzo dell’uomo, ma dello Spirito santo, ossia di quella linfa vitale che circola in chiunque non è separato da Cristo. Questo, insiste Gesù, glorifica il Padre. È bello pensare al Padre come a un contadino che gioisce al vedere il suo campo fertile di frutti rigogliosi, e ne riceve onore e gloria presso i colleghi, gli amici, i familiari.

AUTORE: Bruno Pennacchini, Esegeta, già docente all’Ita di Assisi