Tamburi di guerra

abatjour

Li sento in lontananza, prego Dio che non si avvicinino più di tanto: sono i tamburi di guerra che annunciano un attacco a fondo contro uno dei teologi più benemeriti del nostro tempo, Karl Rahner. Gli rimproverano di avere minimizzato la trascendenza di Dio quando ha detto che ogni affermazione teologica deve avere un suo “corrispettivo antropologico”. Tradotto: non si può parlare di Dio se contemporaneamente non si parla dell’Uomo. Non so se ho detto giusto oppure no; a tutela dell’ortodossia di noi figli delle Chiese umbre veglia nell’Istituto teologico di Assisi un gruppo di specialisti che possiedono il bisturi adatto a sezionare le affermazioni di noi profani, farcirle di “distinguo”, rimandarcele rivedute e corrette. Certo è che – verbi gratia – la rivisitazione del peccato originale in questa chiave è davvero cosa di grande momento. L’ultima esperienza che in ordine di tempo ho fatto a questo proposito è stata l’altro ieri, nella festa dell’Immacolata, quando mi sono fatto suggerire l’omelia dal commento che Ravasi ha fatto alla prima lettura dell’anno C (Gen 3, 9-15.20). La liturgia parla di “macchie del peccato originale” dalle quali Maria fu esente per privilegio unico.“Macchie”: ma che cos’è questo peccato originale, un eczema cronico che rende squamosa la pelle dell’anima e la ispessisce? O un semplice eritema, che provoca l’arrossamento temporaneo della cute?Contrariamente a molti di noi preti che il giorno dell’Immacolata abbiamo per l’ennesima volta ripetuto la storia delle macchie, Ravasi commenta la Genesi (utilizzando anche un brano bellissimo attinto ad una lirica del poeta ebreo Bialik, inizio sec. XX) innanzitutto dello sgomento del creato di fronte all’insensatezza dell’uomo che ha sfidato Dio e che esso inizia a sentire come estraneo, poi di “quell’interrogativo divino terribile” (“Dove sei?”) con il quale Dio entra in scena “ormai non più come il compagno di dialogo con la sua creatura, non più come il sovrano che scende la sera nel suo parco stupendo ad incontrare l’amico più caro, ma come il giudice che è obbligato ad istruire un processo”; e da giudice, e da ex amico, scuote la coscienza e “svela all’uomo il suo delitto e la sua nudità”. È in quel deteriorarsi progressivo della nostra umanità, nell’irresistibile attenuarsi di quella nostra originaria appartenenza, quella che ci definiva sulla roccia dell’Amico discreto e potente, e non sulle sabbie mobili delle nostre piccole paturnie. Ed è nell’inversione di quel cammino umano la nostra speranza d’incontrare Maria, che quel cammino l’ha percorso prima di noi, grazie ad una dotazione che le veniva dall’amore di suo Figlio per Lei e per noi, ma che aveva bisogno, per entrare un funzione, del suo libero assenso.

AUTORE: a cura di Angelo M. Fanucci