Dibattito sì, ma nello Spirito

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini VI Domenica di Pasqua - anno C

Come nelle domeniche precedenti, anche in questa VI di Pasqua la liturgia offre al nostro ascolto un passo dagli Atti degli apostoli, uno dall’Apocalisse e uno dal Vangelo secondo Giovanni. Si è già visto che la prima parte del libro degli Atti narra il cammino di espansione della nuova comunità cristiana, i suoi successi, le sofferenze, le fatiche interne, i problemi. Oggi ascolteremo una parte del capitolo 15, che ne narra un momento cruciale. Per ragioni di tempo e di spazio, la liturgia ha dovuto ometterne la parte centrale, che riferisce l’acceso dibattito fra due posizioni dottrinali.

La lettura inizia così: “Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati”. Che cosa c’era dietro questa ingiunzione? Il luogo del dibattito fu Antiochia, la terza città dell’Impero romano dopo Roma e Alessandria d’Egitto; vi era una consistente comunità giudaica e vi si radicò, con sorprendente rapidità, anche la comunità cristiana, composta da credenti in Gesù, provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo. Nonostante le diversità religiose e culturali delle rispettive provenienze, i fratelli inizialmente vissero in pace. Ben presto però giunsero da Gerusalemme alcuni convertiti dal giudaismo, i quali ritenevano che per essere buoni cristiani anzitutto bisognava diventare buoni giudei.

Per questo bisognava farsi circoncidere, con tutto quello che la scelta comportava: osservanze alimentari, sociologiche… in tutto 618 precetti. Questo turbò la pace della comunità. Ne nacque un dibattito molto acceso con quelli che giustamente ritenevano che la salvezza integrale viene dalla fede in Gesù, senza la necessità di passare per le osservanze giudaiche. Siccome la faccenda appariva insolubile, si decise di portarla a Gerusalemme, dove c’erano Pietro, gli altri apostoli e gli anziani della Chiesa. Si organizzò una riunione, che più tardi sarà chiamata “Concilio di Gerusalemme”; in realtà fu il primo Concilio ecumenico nella millenaria storia della Chiesa. Le discussioni furono libere e aspre; forse durarono giorni; ma si conclusero con una decisione unanime: scrivere una lettera ai cristiani di Antiochia che provenivano dal mondo pagano. In buona sostanza, la lettera diceva che, per essere cristiani, non è necessario farsi preventivamente giudei.

Questa vicenda, avvenuta durante la prima generazione cristiana, ha molte cose da dire anche a noi del secolo XXI. Anzitutto, insegna che il conflitto all’interno della comunità, anche quando assume toni molto alti, va considerato fisiologico. Sarebbe irrealistico e anche un po’ ingenuo sognare che si possa crescere senza andare incontro a incomprensioni, dissensi, lotte. Se a quei tempi – primo secolo della nostra èra – ci fosse stato qualcosa di simile all’attuale sistema dei mass media, si sarebbe sentito parlare di lotte di potere, di veleni e quant’altro.

Non fu così. Quei dissensi certamente provocarono sofferenze; ma tutto avvenne alla presenza dello Spirito di Gesù Cristo risorto. Ne è rimasta traccia in quel punto della lettera apostolica, che scrive: “…è parso bene, infatti, allo Spirito santo e a noi…” (At 15,28). Quell’accoppiata, “lo Spirito santo e noi”, rivela la certezza che la comunità considerava lo Spirito santo parte integrante di se stessa: Egli aveva ispirato e accompagnato la discussione. A nessuna delle nostre comunità cristiane sono risparmiati conflitti; da quelle più in vista a quelle più piccole e sconosciute. Quando questo avviene, si generano divisioni e sofferenze. “È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova” (1 Cor 11,19).

L’auspicio è dunque che i conflitti siano sempre gestiti alla presenza dello Spirito di Gesù Cristo. Dei fatti di Antiochia si ha memoria anche nella lettera di san Paolo a una comunità cristiana residente in Galazia, nel nord dell’attuale Turchia. Anche lì si erano subdolamente infiltrati alcuni convertiti dal giudaismo, che si premurarono di diffondere le stesse idee di cui si parla nella lettura odierna. Quando Paolo, che aveva fondato quella comunità, lo venne a sapere, scrisse loro una lettera di fuoco, appunto la Lettera ai Galati, in cui sostiene con grande energia che il credente è salvato non dalle opere della legge mosaica, ma dall’adesione a Gesù Cristo. Da essa veniamo anche a conoscere alcuni dettagli degli incidenti di Antiochia. Paolo racconta di aver discusso animatamente con lo stesso Pietro, il cui comportamento egli ritenne incoerente. Paolo era cosciente che, se avesse ceduto su quel punto, avrebbe compromesso l’universalità del cristianesimo, riducendolo a una religione locale, legata a una determinata cultura, con le sue usanze, costumi e mentalità.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi