Tra il dire e il fare…

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia XXVI Domenica del tempo ordinario - anno A

“I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno di Dio”, disse Gesù ai farisei che lo ascoltavano nel tempio. Senza dubbio, queste parole, suonarono come una bruciante sferzata per i farisei. Loro, che si consideravano (ed erano ritenuti) “puri”, sarebbero stati preceduti dai pubblici peccatori e dalle prostitute! Qual è il rimprovero che Gesù fa ai farisei? Per primo rimarca la distanza tra il loro “dire” e il loro “fare”. E lo esemplifica narrando la brevissima parabola dei due figli. Il loro padre chiede ad ambedue di andare a lavorare nella vigna.

Il primo si dichiara pronto, ma poi non va; il secondo, invece, dapprincipio ricusa, ma poi si ravvede e va al lavoro. A questo punto Gesù chiede ai farisei: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Essi non possono che rispondere: “l’ultimo”. Era l’unica risposta possibile. Sono perciò gli stessi farisei a mettere a nudo la contrapposizione tra il “dire” e il “fare”. Più volte nel Vangelo si ripete l’esortazione che non bastano le parole; quel che conta è “fare la volontà di Dio”. Le parole da sole non salvano, occorre metterle in pratica. L’esempio del secondo figlio è efficace: egli adempie la volontà del padre non a parole, che sono anzi contrarie ad essa, ma con i fatti.

Nella figura del padre si manifesta il Signore che chiama a lavorare per la sua vigna. E ovviamente vuole che il lavoro sia svolto davvero: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21), aveva detto Gesù. La distanza tra il dire e il fare esplicita cos’è la religiosità farisaica stigmatizzata da Gesù. Ed è ovvio che si tratta di un’accusa rivolta non solo ai farisei del tempo di Gesù, ma a chiunque si comporta come loro, che bada cioè più all’apparire che all’essere, più alle parole che al fare, più all’esteriorità che al cuore.

E se ci esaminiamo un poco vediamo subito quanto ciascuno di noi somigli a quel secondo figlio. C’è un’obbedienza che ha il tono e la forma della deferenza, ma nel profondo nasconde una sottile ribellione interiore. Come può esserci un’esteriore disobbedienza che presenta una superficie scomposta e indisciplinata ma ha nel profondo una sostanza valida ed esemplare di impegno. Gesù afferma che è più facile che un peccatore si ravveda piuttosto che un benpensante, sicuro e altezzoso della sua giustizia, spezzi l’involucro duro del suo autocompiacimento e delle sue abitudini. L’esempio lo trae dall’ascolto o meno della predicazione del Battista: i farisei l’hanno respinta, mentre i peccatori si sono convertiti. Costoro, infatti, non si sono contentati di ascoltare, ma hanno chiesto: “Cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10-14); e hanno messo in atto quanto il predicatore diceva loro.

Questa è la fede: ascoltare l’invito della predicazione del Vangelo e percepirlo come rivolto personalmente a se stessi, non come parole astratte su cui dibattere e discettare. Chi si lascia toccare il cuore dal Vangelo, costui si allontana da se stesso e si abbandona alla volontà di Dio. L’esempio di Francesco d’Assisi che tra qualche giorno festeggeremo è l’opposto della religiosità farisaica. Egli fu discepolo nel senso pieno del termine: ascoltò il Vangelo e lo mise subito in pratica alla lettera. Francesco non è un eroe.

È un uomo che si è lasciato amare dal Signore sino in fondo e per questo lo ha seguito senza resistere. Ha lasciato tutto perché aveva trovato uno che lo amava più di se stesso. È così anche per noi. Gesù ci ha amati più di noi stessi. Francesco d’Assisi lo ha riconosciuto. Noi facciamo fatica, perché i nostri occhi sono pieni ancora di noi stessi e dei nostri problemi. Volgiamo il nostro sguardo al Signore e lasciamoci amare da lui.

AUTORE: Vincenzo Paglia