La vita eterna già qui, adesso

Commento alla liturgia della Parola della IV Domenica di Pasqua - anno C

La liturgia di queste domeniche post-pasquali è attenta a due aspetti della novità evangelica: la rapida espansione storica del movimento di Gesù di Nazareth, ben presto chiamato “cristianesimo”, e la sua dimensione escatologica, ossia i suoi riflessi spirituali ed eterni. Oggi il primo aspetto è narrato nella prima lettura, il secondo nei pochi versetti del Vangelo di Giovanni e nel brano dell’Apocalisse.

Nella prima lettura ci incontriamo con due apostoli, Paolo e Barnaba, che con grande coraggio iniziano un viaggio di evangelizzazione fuori dai confini della attuale Palestina. Il testo fa i nomi della Panfilia e della Pisidia, nell’attuale Turchia meridionale, dove erano presenti numerose comunità giudaiche della diaspora. La predicazione cristiana iniziò dalle sinagoghe, dove si radunavano le comunità ebraiche. Ad esse gli apostoli annunziavano la novità del Risorto, a partire dalle Scritture sante che tutti conoscevano e comprendevano. La predicazione ebbe successo, tant’è che alla fine della celebrazione sinagogale chiesero ai due predicatori di tornare il sabato successivo per ascoltarli ancora. “Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore” (At 13,44). Questo provocò la gelosia dei giudei, i quali non solo contestarono Paolo, ma presero anche ad ingiuriarlo violentemente. E qui avvenne la rottura: “Era necessario – dissero i due predicatori – che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani”. Da quel momento la predicazione non sarà più rivolta principalmente ai figli del popolo eletto, ma a quelli che erano ritenuti “altri”: i pagani. Fu a causa di quella dolorosa rottura che l’annuncio del Risorto è giunto fino a noi, qui, oggi. Tra le parole con cui Paolo si congeda dalla sinagoga, ne emerge una, che è il “filo rosso” di questa liturgia: “vita eterna”. La cogliamo sulla bocca di Gesù: “Io do loro la vita eterna” (Gv 10,28). Purtroppo nella percezione comune dei cristiani, questa espressione è posta in connessione con i funerali; si ascolta infatti risuonare spesso durante le preghiere in suffragio dei defunti. Come dire: la vita ordinaria, quella che tutti viviamo e conosciamo, è la vita; dopo la morte, in mancanza di meglio, ci accontenteremo di quella eterna. Molti aggiungono: il più tardi possibile. Niente di più superficiale. L’aggettivo “eterna” non qualifica un’ipotetica vita dopo la morte, incredibilmente lunga, fatta forse di milioni di anni, di cui peraltro nulla sappiamo; ma piuttosto la vita pienamente compiuta, bella, desiderabile, tutta da vivere, libera dalle minacce della paura, piena di senso; dove per ogni domanda c’è una risposta vera; dove la pace ha una radice profonda in se stessi… Essa può cominciare qui e ora, dono gratuito dello Spirito del Signore risorto. Di questo sta parlando l’evangelista Giovanni, che dilata in due conseguenze fondamentali: essi non andranno mai perduti, perché nessuno li potrà strappare dalla sua mano. Quelli che gli appartengono, ne riconoscono la voce e gli vanno dietro, come fanno le pecore con il loro pastore ed hanno la certezza che non stanno perdendo i giorni e le energie, né ora, né dopo la morte.

Nella seconda lettura, dal libro dell’Apocalisse, la figura del Pastore si fonde con quella dell’Agnello. Il versetto 17 del capitolo 7 dice: “L’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita… Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna”. In precedenza aveva parlato dell’identità di quelli che si lasciano guidare dall’Agnello-Pastore: si dice che sono una folla sterminata, multietnica, multilingue… tutti sono vestiti di bianco, con in mano palme, simbolo di vittoria. La cosa incuriosì il veggente, che domandò chi fossero. Gli fu risposto che erano “quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7,14). È facile riconoscere l’umanità tutta nella folla immensa e multilingue. La grande tribolazione da cui provengono è la vita ordinaria e comune, che a nessuno risparmia sofferenze e tribolazioni. Delle loro vesti bianche si dice che sono state sbiancate immergendole nel sangue dell’Agnello. La nostra mentalità occidentale, sempre un po’ razionalista, si domanda come sia possibile sbiancare un tessuto immergendolo nel sangue, notoriamente rosso. Dobbiamo imparare ad entrare nelle dimensioni allegoriche del linguaggio biblico, per il quale dire sangue è dire vita. La visione vuol dire pertanto che ciascun credente nel Risorto può ritrovare candore e pienezza partecipando integralmente alla morte e alla risurrezione del Signore Gesù.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi

1 COMMENT

  1. Mi è piaciuta la sottolineatura del significato vero di “Vita eterna”. Il crednte in Cristo vive per sempre col suo Signore che è il VIVENTE ” La morte non è che un cammino verso la ie siamo in Gesù Cristo” Sono le parole di un inno. Il morire non è altro che un “addormentarsi” in attesa di essere risvegliati. E Paolo esclama ” O morte. dov’è la tua arma che uccide? CRISTO E’IL VINCITORE ANCHE DELLA MORTE. E’ veramente risorto.

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