Ci troviamo nuovamente davanti a una notizia che lacera il cuore e ci pone di fronte a interrogativi profondi sulla nostra società, sulla nostra umanità.
La morte di Sami Bettibi un fallimento collettivo
La morte tragica di Sami Bettibi nel carcere di Perugia, il 12 marzo, non è solo il racconto di un singolo dramma, ma il segnale di un fallimento collettivo che ci coinvolge tutti.
Il fuoco quale estremo tentativo di farsi ascoltare
Chi era Sami Bettibi? Non possiamo limitarci a pensare a lui solo come a un detenuto. Egli era un uomo, un figlio, forse un fratello o un padre. Era una persona con una storia, con un passato e, nonostante tutto, con un futuro che è stato tragicamente spezzato. Sami ha scelto il fuoco nella sua cella come grido, come ultimo disperato tentativo di farsi ascoltare. Un grido che soffoca. Ma siamo stati noi, come società, sordi al suo dolore?
Luoghi di riabilitazione diventano scenari di morte
Ci chiediamo: come può una civiltà, fondata sullo stato di diritto, definirsi tale se permette che i suoi luoghi di “riabilitazione” diventino scenari di disperazione e morte? Sovraffollamento, degrado, abbandono: è in queste condizioni che diciamo di voler riabilitare? O, forse, dobbiamo ammettere che la vera prigionia è quella della nostra indifferenza? Il fallimento non è solo delle istituzioni; è il fallimento della nostra coscienza collettiva.
La morte di Sami Bettibi un monito, un punto di svolta
È il fallimento ogni volta che scegliamo di voltare lo sguardo, ogni volta che accettiamo il degrado come “normale”, ogni volta che dimentichiamo che la dignità di una singola persona riguarda la dignità di tutti. Non possiamo riportare Sami alla vita, ma possiamo rendere la sua morte un monito, un punto di svolta.
Costruiamo una società che non abbandona i più fragili
Possiamo pretendere giustizia, non solo nelle aule dei tribunali, ma nel nostro vivere quotidiano. Possiamo impegnarci a costruire una società che metta al centro la persona, che non abbandoni chi è più fragile, chi è emarginato, chi ha sbagliato. Alla luce di questa tragedia, invochiamo con forza un rinnovamento dei nostri cuori e delle nostre strutture. Preghiamo che la morte di Sami non sia vana, ma che diventi seme di consapevolezza, di solidarietà e di giustizia. E agiamo, perché un mondo più giusto non si costruisce con le parole, ma con i gesti concreti, capaci di piantare piccoli semi di carità.
Le istituzioni si impegnino a garantire i diritti fondamentali
Esistono altri percorsi rispetto al carcere: la Giustizia di comunità e la Giustizia ristorativa. Le Istituzioni coinvolte, in particolare le strutture carcerarie, intensifichino il proprio impegno nel promuovere e favorire l’adozione di queste pratiche. La Caritas sarà al loro fianco. Si impegnino con decisione a garantire il rispetto dei diritti fondamentali e del benessere psicofisico dei detenuti, così come degli agenti di polizia penitenziaria, i quali operano in condizioni spesso difficili, tormentate e sfidanti.
Sostenere programmi rieducativi di qualità
Occorre promuovere e sostenere programmi rieducativi di alta qualità, creando percorsi di reintegrazione sociale e professionale. Serve accompagnamento all’uscita dal carcere e non la consegna di “un pacco postale” al quale il terzo settore deve dare risposta. Non possiamo più tacere, ma dare voce a tutti gli ultimi come cittadini, battezzati, operatori e volontari Caritas.
Don Marco Briziarelli
direttore della Caritas diocesana di Perugia