Dal Cairo si riapre lo scacchiere mondiale

EGITTO. Quali scenari dopo le piazze anti-Mubarak?

“Vede questi carri armati? – dice una signora anziana al giornalista dell’Independent. – Hanno le armi puntate sulla folla. Se sparano, Mubarak è finito. Se non sparano, Mubarak è finito”. Questa frase, pronunciata con la malizia e l’entusiasmo di una ragazzina, rappresenta bene la situazione dell’Egitto di questi giorni. Dopo la Tunisia, la consapevolezza che cambiare è possibile si è diffusa in Egitto, dove la gente è scesa in piazza per provocare la fine del regime di Mubarak. In molti Paesi della regione vi è una forte disuguaglianza economica, con la popolazione povera e ingenti ricchezze monopolizzate delle élite. Da molti anni quelle stesse élite controllano il potere: dal 1998 Ben Alì in Tunisia, dal 1981 Mubarak in Egitto, dal 1978 Ali Abdullah Saleh in Yemen, dal 1969 Gheddafi in Libia, solo dal 2000 Bashar al-Asad in Siria, succeduto per designazione paterna nel ruolo di “presidente” che Hafiz al-Asad occupavadal 1971. Le manifestazioni di questi giorni, che stanno estendendosi allo Yemen, alla Siria e, in misura minore, all’Algeria, sono del tutto politiche e chiedono consapevolmente un cambiamento. Siamo di fronte all’ennesima lotta di potere che usa le folle per affermarsi? Il rischio esiste, ma rispetto a casi del passato oggi esistono tre differenze. La prima è l’interdipendenza data dalla globalizzazione. In Egitto è impossibile occupare il potere in spregio della democrazia senza conseguenze internazionali, con perdita di credito politico ed economico. La seconda sono i nuovi media gestiti direttamente dalle persone, che diffondono in tempo reale le informazioni, aggirando le censure del regime. La terza è il sistema di istituzioni multilaterali regionali. Pur con molti limiti, molti Paesi vittime di colpi di Stato sono stati accompagnati dall’Unione africana (Ua) negli ultimi anni verso approdi democratici. Simbolicamente proprio il neo presidente della Guinea Conakry, Alpha Condé, ha parlato a nome dell’Ua per raccomandare in Egitto libere elezioni. Si ha l’impressione insomma che sia sempre maggiore la consapevolezza che solo un percorso democratico possa legittimare e sostenere un cambiamento. Lo stile non violento delle manifestazioni, che non è degenerato nemmeno di fronte ad un altissimo prezzo pagato in termini di vite umane, sembra confermare questa tendenza. Che ruolo giocano i fondamentalisti? Proprio l’esempio iraniano fa temere che una rivoluzione popolare venga cinicamente cavalcata e tradita. Se i fondamentalisti dovessero affermarsi in Egitto, cambierebbe l’intero equilibrio mediorientale, e con esso quello mondiale. In Tunisia, un Paese laico con una condizione della donna particolarmente libera, la componente integralista non è stata al centro delle dinamiche. In questi giorni è rientrato dall’esilio Gannouchi, il leader fondamentalista tunisino, accolto da una grande folla, ma anche da manifestazioni molto partecipate contro l’integralismo, segno di una preoccupazione esistente. In Egitto sono nati i Fratelli musulmani, uno dei movimenti integralisti culturalmente più vivi di tutto il mondo arabo. Mubarak li ha sempre combattuti, guadagnandosi la stima Usa. Oggi hanno assistito alle manifestazioni senza partecipare all’organizzazione. Non hanno un seguito grandissimo nel Paese, ma tutti hanno timore del precedente iraniano, quando Khomeini cavalcò e tradì la rivolta popolare che aveva cacciato lo Scià, e la comunità internazionale è preoccupata. Per ora tengono un profilo basso, riconoscendo El Baradey come interlocutore per trattare col governo. Proprio la figura di El Baradey ci permette una riflessione sulle vie di uscita dalla crisi. Con le manifestazioni, l’ex capo della Agenzia Onu per l’energia nucleare, che si è guadagnato la stima internazionale – e il premio Nobel per la pace – per l’indipendenza con cui ha gestito il dossier iraniano, è rientrato nel Paese. È forse l’unica persona oggi in Egitto che, con la sua statura internazionale, possa garantire credibilità nei rapporti internazionali, soprattutto con gli Usa, alleato strategico del Paese. La sua figura non era così nota in casa, ma il suo nome sta diventando popolare, soprattutto dopo la sua partecipazione alle manifestazioni notturne che hanno sfidato il coprifuoco. I prossimi giorni ci diranno se sarà lui a guidare il Paese o se cadremo nel buio dei Fratelli musulmani o di un militare, l’altra forza che non ha ancora fatto una vera scelta di campo. L’ultima considerazione riguarda le reazioni degli occidentali. Netanyahu ha incredibilmente dichiarato il proprio sostegno a Mubarak, superato in democrazia dalle folle del Cairo. Obama ha raccomandato il rispetto dei diritti umani e la non violenza, mettendo in atto una potentissima iniziativa diplomatica di dialogo con l’esercito, i Fratelli musulmani e lo stesso El Baradey. Sarkozy, Merkel e Cameron hanno firmato un documento congiunto che chiede a Mubarak nuove elezioni. In silenzio, per ora, l’Italia.

AUTORE: Riccardo Moro