Delitto e castigo

Il 6 giugno dell’anno scorso a Chiavenna (Sondrio) suor Maria Laura Mainetti venne uccisa con 19 coltellate da tre ragazze, due di diciassette e una di sedici anni. La suora era stata tirata dentro una trappola ben congegnata: era stata chiamata per aiutare una ragazza incinta che si trovava in difficoltà. Le tre ragazze, scoperte, prima hanno detto che intendevano fare un gioco, poi hanno confessato di aver voluto compiere un sacrificio a Satana. Il 5 febbraio 2001 è iniziato il processo ed è cominciata la schermaglia tra i periti che è esplosa nell’udienza di martedì scorso: alcuni dicono che le ragazze sono punibili e altri invece che al momento del delitto erano incapaci di intendere e di volere. Il dibattito si apre anche tra la gente. Ogni volta che avviene un fatto atroce, come quelli di cui siamo a conoscenza (una figlia che uccide la madre e il fratellino, il ragazzo che sgozza la ragazza, la madre che accoltella due figli) e che è inutile raccontare tanto sono presenti nella coscienza collettiva, si aprono due fronti che percorrono strade opposte: coloro che chiedono giustizia senza pietà e dall’altra parte coloro che credono si tratti di pura follia e quindi non punibili perché incapaci di intendere e di volere. La disparità di giudizio dipende dalla disparità dell’oggetto messo in primo piano: il delitto da una parte e il soggetto che lo ha compiuto dall’altra. La difficoltà del giudizio consiste nel fare la sintesi tra i due punti di vista. Pare che questa sia fatta dal fratello della vittima che ha detto: io perdono le ragazze, ma sia fatta giustizia. La comprensione verso l’assassino, soprattutto in questo caso in cui vi sono delle minorenni, è giusta e opportuna e va valutata sia per la comminazione della pena, sia per la rieducazione ed eventualmente della cura psichica dei soggetti. Ma questo non deve far velo sulla atrocità dei fatti e sull’ingiustizia compiuta nei confronti della vittima. E’ troppo facile ridurre ogni comportamento negativo alla sfera della patologia mentale. C’è dietro a questo atteggiamento non tanto una supposta scienza psicologica (se questa fornisse criteri oggettivi non ci sarebbero discrepanze così evidenti tra gli esperti), quanto una visione antropologica che risale alle prime origini della storia del pensiero occidentale. Già Socrate affermava che nessuno fa il male se non per ignoranza. Questa posizione non è fondata su dati di esperienza dalla quale si può facilmente trarre la convinzione che il male può essere scelto e compiuto con lucida determinazione della volontà: anche i pagani dicevano video bona proboque et deteriora sequor (vedo il bene e lo approvo mentre seguo comportamenti detestabili). E non è coerente con il pensiero biblico-cristiano che fa leva sulla scelta (i dieci comandamenti). Se cade il principio della responsabilità siamo tutti innocenti e irresponsabili come bambini. Sembra che manchi, oggi, nella nostra società e nel processo educativo il richiamo al dovere, alla ricerca del bene, allo sforzo per adeguarsi ai valori del rispetto dell’altro, della vita, della natura e all’obbligo morale di combattere ed evitare il male. Si disputa persino su cosa sia bene e cosa sia male, per cui nelle menti di molti abita una grande confusione. Il processo alle ragazze potrebbe essere un’occasione per ribadire alcuni fondamentali ed elementari principi. Tutto ciò mi premeva di dire, senza tuttavia minimamente trascurare il dovere di considerare con pietà le persone che hanno commesso dei delitti per usare verso di loro comprensione e misericordia, perdono e aiuto per la loro conversione e la loro rieducazione, specialmente quando si tratta di minori e di persone affette da qualche particolare patologia mentale. Ricordando, tra l’altro, che il vero castigo di ogni delitto è quello di averlo commesso e che non è dato all’uomo, ma, per chi crede, solo a Dio, di poterlo riparare.

AUTORE: Elio Bromuri