Gesù il seminatore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XV Domenica del tempo ordinario - anno A

Da questa domenica, e per tre settimane, il lezionario – facendoci saltare tutto il capitolo dodicesimo del Vangelo di Matteo – ci offre la lettura del tredicesimo, quello detto delle parabole del Regno di Dio. Composto di sette parabole (quella del seminatore, della zizzania, del grano di senapa, del lievito, del tesoro, della perla preziosa, e infine quella della rete), offre anche una introduzione al genere parabolico (13,10-17) e le spiegazioni di due delle parabole lì raccontate, quella del seminatore (13,18-23) e quella della zizzania (36-43). La prima parabola, che leggiamo oggi, è quella che nel capitolo “in un certo senso, governa tutte le altre”, ed è anche “la più importante”‘ non solo delle parabole di Matteo, ma “di tutte le parabole evangeliche” (Mello).

Le domande fondamentali che questa provoca sono: chi è il seminatore? e qual è il suo comportamento? Gesù sta descrivendo la sua stessa missione di annunciatore del Regno: quel seminatore che esce per andare a gettare il seme è proprio lui mentre parla del Regno di Dio. Ciò ci mette in grado di sottolineare un aspetto del nostro racconto, ovvero le diverse descrizioni del terreno che riceve il seme. Proprio su questo si concentra la spiegazione della parabola che viene data ai discepoli, e che leggiamo a partire dai vv. 18-19: “Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta (oppure: ‘quando uno ascolta’) la parola del regno è”. La parabola tratta quindi dell’ascoltare la parola del Regno (cfr. Mc 4,14: “la parola”; Lc 8,11: “la parola di Dio”). Ma se il seme è lo stesso, cambia il terreno dove questo cade, ovvero il modo di ascoltare questa parola.

Secondo Gerhardsson, che ritiene come la parabola possa essere meglio capita confrontandola con la preghiera quotidiana ebraica dello Shemà (“Ascolta, Israele”, cfr. Dt 6,4ss.), “gli ascoltatori della parola si dividono in due gruppi: A) quelli che non soddisfano le esigenze richieste; B) quelli che invece le soddisfano. A) Consiste di tre tipi: 1) gli uomini della strada; 2) gli uomini dei terreni pietrosi e 3) gli uomini delle spine. Alcuni falliscono perché non amano Dio con tutto il cuore (1), altri perché non lo amano con tutta la loro anima (2) e altri perché non lo amano con tutta la loro forza (3). Quelli che non falliscono (B), invece, gli uomini del buon terreno, ascoltano, capiscono e fanno, cioè producono frutto, vivendo in accordo con ciò che hanno udito”.

Questa spiegazione, di taglio biblico e morale, è molto soddisfacente. Allora potremmo davvero chiederci quale tipo di terreno siamo, quando ascoltiamo la parola del Regno. Si rischia infatti, ogni volta che Dio ci parla, di chiudere gli orecchi o di non prestare la dovuta attenzione. Ricordiamo che il tema dell’ascolto e della messa in pratica è caro a Matteo, ed è da questi trattato alla fine del discorso della montagna: “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7, 24; cfr. Lc 6,47-49). La difficoltà dell’ascolto non è data solo in rapporto alla Parola con la P maiuscola, quella di Dio.

Nella nostra società dei mass media, in modo analogo, abbondanti sono le possibilità di comunicare e di creare relazioni, continuamente riceviamo segnali di tanti tipi, stimoli, ascoltiamo parole, ma rischiamo di perdere il senso reale del messaggio. I genitori e i figli si siedono a tavola e non si ascoltano più vicendevolmente, ma lasciano acceso il televisore a riempire quel vuoto che spesso incombe nelle nostre famiglie: e allora non si interpretano più i segni come si dovrebbe. Il seme, magari gettato nella forma di un disagio che chiede aiuto, cade su un terreno che non è capace di accoglierlo. Già alcuni linguisti (come Eric Buyssens) avevano accostato la parola “seme” a quella di “segno”: ogni segno che ci comunica qualcosa, è sempre un seme a cui dare spazio nel nostro ascolto e nella nostra vita.

Il problema è che oggi, nel nostro contesto post-cristiano, il seme della parola di Dio viene aggredito continuamente dalla cultura laicista dominante. Questa non ci agevola in nessun modo nell’essere buon terreno, e la trasmissione della fede è divenuto un tema tanto delicato che anche i nostri vescovi hanno dovuto affrontarlo nel documento pastorale per il presente decennio. La parabola di oggi in questo senso è di grande aiuto. Da una parte è fortemente responsabilizzante: dice che sta a noi custodire il seme-segno della Parola di Dio; dall’altra, però, ci ricorda che il seme viene sempre gettato, che il Signore non si stanca di seminare, anche lì sui sassi, dove a noi sembra sprecata la semina. Se il mondo non accetta più la Parola del Signore che l’ha creato, questa non verrà mai meno; piuttosto, come dice il Vangelo, a passare saranno il cielo e la terra (Mc 13,31).

AUTORE: Giulio Michelini