Giovani disoccupati, un triste record

Editoriale

In Italia, record di giovani senza lavoro. Un titolo che non vorremmo mai scrivere in nessun giornale. Purtroppo fotografa la realtà. Quasi il 30 per cento, precisamente il 29, dei nostri giovani dai 15 ai 24 anni è disoccupato. Un 10 per cento in più della media europea. Eppure siamo sotto di almeno un punto relativamente alla situazione europea degli adulti senza un’occupazione. Significa che il lavoro è tenuto stretto dal mondo degli adulti, che non riescono a procurarlo alle giovani generazioni. Di fatto, quasi uno su tre dei nostri giovani sta tutto il giorno con le mani in mano. Eppure chiunque abbia un’attività imprenditoriale ogni giorno riceve sul suo tavolo o sul desk del suo computer domande e curricoli di giovani che hanno un diploma, una o anche due lauree, più master, conoscenze di più lingue, e spesso tanti lavori fatti, di tutti i tipi, pur di raggranellare qualche soldino. Il paradosso è che la società italiana ed europea è una comunità vecchia. Non riesce neppure a soddisfare il cosiddetto rimpiazzo generazionale. L’immigrazione, prima ancora che un bisogno dei popoli poveri, è una nostra necessità. Ma proprio perché siamo una società di anziani, i timori per i nuovi arrivati – indispensabili in moltissimi lavori – sono più consistenti. Si dirà che i giovani non accettano alcuni lavori più umili. Che sono un po’ “bamboccioni” per un surplus di protezione da parte di mamme e papà. Non è falso. Ma qualcuno dovrebbe spiegare loro perché il mondo adulto insista a dire che la nostra è la società del know how, cioè della conoscenza. Già, perché dopo che hanno acquisito una montagna di diplomi e abilitazioni non sappiamo dove occuparli. Tutti i supplementi “Lavoro” dei quotidiani rivelano pagina dopo pagina che i giovani, che si affacciano sul mercato del lavoro, sono chiamati ad una sorta di quadratura del cerchio. È richiesta un’esperienza di due o tre anni nel settore d’attività. Conseguenza: niente lavoro senza esperienza, niente esperienza senza lavoro. Ma non basta. Anche quando si riesce ad entrare in un ciclo produttivo, si viene assunti in forma precaria. Le aziende, soprattutto in questa situazione di mercati volatili e difficili, chiedono flessibilità. Ma la flessibilità poi si cronicizza come certe malattie. E come un’infezione si diffonde nella vita. Così precari diventano gli affetti. Provvisorie diventano le unioni. Ma esse stesse, le convivenze, si cronicizzano per diventare, nell’instabilità del posto di lavoro, l’unica stabilità. Ecco allora i dati allarmanti sull’istituto familiare, il matrimonio, troppe volte in disuso tra le giovani generazioni. Ovviamente il fattore lavoro incide insieme ad altri fattori di tipo sociale, valoriale, educativo. A questo punto l’interrogativo sull’assenza e precarietà del lavoro riguarda impresa e politica, società e religione. Quale futuro si prepara per i nostri popoli? Non stiamo rottamando i nostri figli? Spegnendo la speranza? Non sono domande pessimiste. Sono reali. Sottovalutate. Nel nostro “vecchio” Continente.

AUTORE: Bruno Cescon