Il Messale non deve dividerci

Messa di Pio V. Il 14 settembre va in vigore il Motu proprio di Benedetto XVI

‘Ofrire un contributo alle delicate mediazioni che saranno necessarie per evitare che l’impatto della nuova disciplina possa generare nella realtà ecclesiale divisioni e contrapposizioni’. Questo lo scopo di una riflessione sul motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, che la comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di liturgia pastorale dell’abbazia di Santa Giustina di Padova e l’Associazione professori e cultori di liturgia (Apl) hanno preparato in vista dell’entrata in vigore – il 14 settembre – delle norme del documento. Il contributo delle tre realtà, in linea con la loro ‘tradizione di formazione liturgica e di sensibilità pastorale’, intende ‘promuovere l’avvio di una serena ed equilibrata riflessione su alcuni punti dell’intervento papale’. La riflessione (disponibile su www.camaldoli.it, www.ist-liturgiapastorale.net, www.apl-italia.org) si apre con una breve premessa: ‘Vi sono nella Chiesa e tra gli uomini due forme del risentimento che devono essere superate: quella verso il passato, che è il radicalismo, e quella verso il futuro, che è il compromesso. La riconciliazione cui mira il motu proprio dovrebbe tradursi in una prassi liturgica lontana tanto dal radicalismo senza passato, quanto dal compromesso senza futuro’. Da questa premessa prende il via la riflessione, di cui offriamo una sintesi. Tre affermazioni centrali. ‘La riforma liturgica non è e non deve essere messa in dubbio’; ‘non si vuole e non si deve creare divisione’; ‘la partecipazione attiva deve essere salvaguardata’: queste le ‘idee guida’ che le tre realtà (comunità di Camaldoli, abbazia Santa Giustina, Apl) individuano dalla lettura unitaria del motu proprio e della Lettera inviata dal Papa ai vescovi di tutto il mondo per presentare il documento. Anzitutto, il fatto che la riforma liturgica non è messa in dubbio: ‘Questa affermazione, ripetuta due volte nella Lettera ai vescovi da Benedetto XVI, ha come riscontro la differenza sostanziale tra un rito romano in forma ordinaria e un rito romano in forma extra-ordinaria. Entrambe le forme appaiono come l’esercizio di un diritto, ma quella ordinaria non ha alcun bisogno di specifiche condizioni, mentre quella extra-ordinaria può essere celebrata solo in presenza di determinate condizioni’. La seconda affermazione centrale è che il motu proprio non intende ‘creare divisione’: il documento, viene spiegato nella riflessione, ‘configura una duplice forma del rito romano: una incondizionata (ordinaria) e una condizionata (extra-ordinaria). È precisamente la diversa rilevanza delle condizioni ad assicurare, nello stesso tempo, sia la possibile riconciliazione ecclesiale, sia quel principio di certezza del rito che risulta criterio indispensabile per l’ordinato svolgimento della vita liturgica ed ecclesiale. Diversamente, si correrebbe il rischio di favorire divisioni’. Infine, la ‘partecipazione attiva’: ‘Questo criterio risulterà senz’altro utile per orientare la decisione di fronte alle richieste di alcuni membri del popolo di Dio’. A quali condizioni. ‘Dalla lettura congiunta del motu proprio e della Lettera ai vescovi è facile desumere – si legge nella riflessione – una disciplina delle condizioni necessarie per individuare i casi in cui è possibile celebrare la liturgia eucaristica (o sacramentale) nella forma preconciliare con partecipazione del popolo. Tali condizioni – di carattere pastorale – riguardano due soggetti: i fedeli richiedenti e i ministri che presiedono il rito’. Per quanto riguarda i fedeli richiedenti, ‘il motu proprio e la Lettera ai vescovi distinguono tra condizioni oggettive (il gruppo stabile e la salvaguardia della comunione) e condizioni soggettive (formazione liturgica e accesso alla lingua latina). Sul piano dell’efficacia pastorale, queste condizioni richiedono di essere tutte contemporaneamente presenti’. Per quanto riguarda, invece, i ‘ministri che presiedono il rito preconciliare’, questi ‘sono invitati dal provvedimento a tener conto di una triplice condizione per poter effettivamente servire il proprio gregge: familiarità con il rito preconciliare; accettazione del Vaticano II e dei nuovi libri liturgici; esperienza ecclesiale e stile spirituale’. A tal riguardo viene ricordato che ‘un principio sapienziale e prudenziale richiede che nessuno debba celebrare in un rito (o secondo un uso) che non conosce per esperienza diretta, per formazione sedimentata e al quale non sente di poter aderire’. Occorre discernimento. ‘La presenza di una forma extraordinaria – questa la conclusione della riflessione – può essere compresa senza conflitto e in una logica di autentica riconciliazione soltanto nella misura in cui essa rimane strettamente limitata a condizioni oggettive e soggettive non ordinarie: condizioni che – come dice lo stesso Benedetto XVI – non si trovano tanto di frequente. Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto pastorale e spirituale da questo passaggio disciplinare, recuperando l’uso della partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio al mistero celebrato, e così purificando – grazie a questo nuovo uso – le proprie celebrazioni da ogni possibile abuso’. Vincenzo CorradoLa lingua? Non è l’aspetto più importante Non è solo una questione di lingua, la differenza tra la messa di Pio V e quella del dopo-Concilio. Anzi, la lingua in definitiva è l’elemento meno rilevante. Anche la liturgia post-conciliare può essere celebrata in latino, oltre che in italiano, shwaili o qualsiasi altro idioma. La differenza profonda riguarda però il modo di concepire la liturgia e quindi la stessa Chiesa negli elementi che la compongono. Nel rito di Pio V, ad esempio è maggiormente evidenziato il ruolo del sacerdote, che è il vero ‘protagonista’ rispetto all’assemblea. La riforma operata dal Concilio Vaticano II ha inteso rivalutare e riportare al centro la comunità dei fedeli, popolo di Dio, la quale partecipa attivamente al rito. Anche il modo di accostarsi alla Parola di Dio è cambiato, nel senso che è stato ampliato e organizzato nel ‘lezionario’ il ciclo delle letture dell’Antico e del Nuovo Testamento secondo un criterio di completezza nel corso dei due anni per le celebrazioni feriali e tre anni di quelle festive. Ciò precisato, si deve ricordare comunque che il rito preconciliare è stato quello usato per secoli e via via riformato e usato anche dai padri conciliari durante tutto il tempo del Concilio stesso. Contrariamente a quanto ritenuto da molti liturgisti, il papa Benedetto, nella sua autorità, ha affermato che quel rito non è stato abolito esplicitamete e pertanto egli ha inteso solo disciplinarne l’uso per evitare difformità e divisioni. Alcune paricolarità della messa di san Pio V Il ‘Confiteor’: viene recitato prima dal sacerdote; il popolo risponde dicendo ‘Misereatur tui’, quindi si fa viceversa. Segue l’assoluzione. Letture: la Messa tridentina prevede un’unica lettura, oltre al Vangelo: l”Epistola’. Preghiera dei fedeli: nel vecchio rito, non esiste. Preghiera eucaristica: si recita sempre il ‘Canone romano’ e non ve ne sono altri. Segno di pace: nel vecchio rito, è riservato alle messe celebrate da vescovi. Conclusione: dopo la benedizione finale, era prevista la recita del prologo del Vangelo di Giovanni. Leone XIII raccomandò inoltre di recitare 3 Ave Maria, il Salve Regina e l’orazione a san Michele Arcangelo, seguita dalla triplice invocazione al Sacro Cuore di Gesù.