Il mio Papa bifronte (3)

di Angelo M. Fanucci

No, quel 28 ottobre 1958 in cui il card. Roncalli divenne Giovanni XXIII, lo Spirito santo non era in ferie, come sospettavamo noi studentelli presuntuosetti.

Perché il vecchio contadino bergamasco che salì al Soglio di Pietro era un uomo di Dio.

Verso Dio: due ore di preghiera al giorno. La messa all’alba, e durante il giorno non solo la recita dell’intero breviario (tutte le ore, senza sconti; e il mattutino di allora, in tre parti, con nove letture invece delle attuali due: un mattone che nutriva come panna montata la sua pietà profondissima); a margine, la recita quotidiana di tutt’e quindici le poste del rosario. Tutti i giorni.

Verso gli esseri umani, un amore silenzioso e sconfinato, che trasuda da ogni suo discorso. Per tutti gli esseri umani.

E le chiavi di san Pietro le prese in mano come fossero le chiavi del salotto buono, senza ombra di patemi d’animo.

La prima uscita dal Vaticano la riservò al suo vecchio Seminario. Lo accogliemmo con un entusiasmo ancora rigato di gelo. Ma il gelo si sciolse quando volle fare una chiacchierata con noi. “È difficile fare il Papa?”. Ci pensa. “Dopo i primi giorni di ansia, ho fatto un patto con Gesù: io alla Chiesa ci penso di giorno, di notte ci pensi tu, e io dormo”.

“C’è molta differenza tra Roma e Venezia, da dove lei viene?”. “Nooo. Dell’acqua lì e Dell’Acqua qui, canali lì e Canali qui!”. Una battuta decisamente provvidenziale: lo accompagnavano il sostituto della Segreteria di Stato mons. Dell’Acqua e il governatore della Città del Vaticano, card. Canali. Applausi e risate Doc.

Ma quando, da Papa, cominciò a dire cose semplici e profonde che nessun Papa aveva mai detto, quando prese a compiere gesti assolutamente quotidiani carichi di profezia, per noi studentelli prima furono mazzate tremende tra capo e collo, poi tutto ci travolse gioiosamente in un entusiasmo finalmente puerile, acritico ma più che giustificato.

La visita all’ospedale del Bambin Gesù: “Nonno!” lo chiamò un frugoletto. A Regina Coeli scatenò l’applauso dei carcerati quando minimizzò il loro imbarazzo confessando d’avere avuto anche lui in casa un parente carcerato (un cugino: aveva passato una notte in caserma, per essersi presentato in ritardo alla visita militare). I pomeriggi domenicali passati nella parrocchie di periferia, con la folla che, per avvicinarsi a lui, rischiava di schiacciarlo.

“Questo è il mio Papa” dissi a me stesso. Quando più tardi lo seppe Papa Francesco, annuì: “Hai fatto bene”.