Il mondo in guerra: a che serve l’Europa?

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Mai come in questi giorni ha un senso porsi una domanda che nel corso degli ultimi decenni in tanti si sono posti: a che serve l’Europa? Mentre i pezzi di terza guerra mondiale evidenziati da papa Francesco si stanno pericolosamente ricomponendo in un unico scenario bellico, da Bruxelles non arrivano indicazioni su quali potrebbero essere le possibili vie d’uscita per evitare la catastrofe definitiva.

Imperversano immagini di leader che si bisbigliano frasi all’orecchio seduti intorno a un tavolo, si lanciano profezie di un’invasione russa dell’Europa nel 2030 (ministro della Difesa tedesco dixit ) dalle quali si fanno discendere propositi di riarmo collettivo (con quali soldi, non si sa) e vengono proposte ulteriori sanzioni anti-Putin che però verso Netanyahu non vengono neanche immaginate.

Non va meglio al G7, dove Trump arriva, firma quel minimo che si sente di firmare di documenti comuni e poi riparte. A sottolineare, se ancora ce ne fosse bisogno, l’irrilevanza del Vecchio Continente e dei suoi leader. Anche su questo l’Europa ed i suoi governi sembrano in ritardo: nel riconoscere una volta per tutte che la sponda atlantica non è più così sicura e accomodante, né dal punto di vista economico, vista la partita dei dazi, né sotto il profilo della copertura militare. Gli Stati Uniti di Trump non sono più l’alleato storico al quale eravamo, supinamente ma comodamente, abituati a delegare la difesa del territorio europeo.

A fronte di nuovi e sempre più inquietanti scenari, come quello dell’attacco americano all’Iran, Bruxelles si trova ancora una volta spiazzata. E tende ad improvvisare, rendendo ancora più pericoloso lo scivolamento verso un conflitto generale: che senso ha, ad esempio, ripetere all’infinito la giaculatoria delle “de-escalation”, se non si ha uno straccio di proposta realistica per poterla realizzare? E soprattutto: sarebbe o no il caso di chiedersi se, nella vicenda ucraina, non sia stata invece alimentata una “escalation” senza sapere dove questo avrebbe potuto portare? Sono tutte domande alle quali dovrebbero rispondere leader qualificati a sostenere il peso e a conoscere le chiavi di lettura di una politica estera diventata prioritaria rispetto alle beghe interne ad ogni paese dell’Unione.

Leader con idee concrete, attuabili, in testa. Vengono in mente, in questi giorni caotici di fuoco, le figure dei capi religiosi radunati ad Assisi da Giovanni Paolo II. Un leader, papa Wojtyla, che sulla politica estera aveva idee ben precise. Idee che ha perseguito con tenacia e coraggio, riuscendo a piegare alla logica del dialogo anche situazioni dove le armi avrebbero portato solo morte e distruzione. Di quello “Spirito di Assisi” sembra essersi persa la traccia, soffocato dall’ingordigia dei potenti e dall’insipienza dei mediocri.

Si ripete, anche in questi giorni di bombe e massacri, la frase di Henry Kissinger: “se devo parlare con il ministro degli Esteri dell’Europa, che numero devo fare?”. Non c’è numero, dottor Kissinger. Forse perché non ci sarebbe comunque una posizione condivisa da comunicare. Anni e anni di divisioni e contrasti più o meno mascherati dietro provvedimenti di stampo meramente burocratico stanno venendo al pettine nel momento peggiore del mondo dalla fine della seconda guerra mondiale. Per questo è lecito e logico chiedersi: a che serve l’Europa?

Daris Giancarlini

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