Erano avvolgenti come una nuvola leggera le note della sinfonia n. 40 di Mozart, modernamente arrangiata da Valdo de Los Rios, che, sprigionandosi da un bello stereo (per quei tempi) piazzato sotto gli affreschi quattrocenteschi retrostanti l’altare rimosso, ti accoglievano nell’ex chiesa di Via del Verzaro, a Perugia, dietro la facoltà di Lettere. Pomeriggi degli anni Settanta: dopo qualche ora di studio capitava anche che, ogni tanto, ti venisse la voglia di fare un salto, il lunedì, al centro ecumenico ed universitario “San Martino”.
Ad aspettarti c’era, immancabile, don Elio; accanto a lui una pila di volumi e diverse riviste appoggiati sulla pesante tovaglia rossa di tela umbra che copriva il grande tavolo delle conferenze, solo in particolari circostanze posto a mo’ di cattedra sulla pedana della zona altare, il più delle volte piazzato invece al centro della sala per sistemarsi comodamente intorno e avviare le discussioni in programma. Le prime volte era sorpreso, ma ti guardava con l’aria soddisfatta del pescatore che aveva gettato l’amo e ti aveva fatto abboccare con inattesa facilità. Lo faceva a scuola, al liceo classico dove in quegli anni insegnava storia e filosofia.
Addentrandosi nelle lezioni buttava là: “Perché non venite oggi pomeriggio al centro ‘San Martino’, dove con Tizio e Caio svilupperemo questo tema più approfonditamente?”. Così provavi ad andare, per vedere come si riprendeva il filo di un discorso avviato tra i banchi con un taglio didattico inconfondibile, una chiarezza limpida, una dialettica ferma e un rigore inappuntabile, indiscutibilmente “laico” sul piano scientifico, ma stemperato e reso ancor più accattivante da non rare punte di ironia. Anche a scuola posava sulla cattedra una piccola pila di libri attingendo ai quali – senza dare in escandescenze ma suscitando qualche borbottio tra i compagni impegnati nei “collettivi” – annacquava abilmente l’influsso marxista dei testi ereditati dai suoi predecessori.
Al Camera-Fabietti, per quanto riguardava la storia, faceva fare il controcanto dal De Rosa; per la filosofia equilibrava il Giannantoni affidandosi non a uno studioso cattolico, ma a un liberale di stretta ortodossia crociana: il De Ruggiero, i cui tredici volumi di storia della filosofia ormai introvabili della “Universale Laterza” credo abbiano costituito per diversi della mia leva il primo nucleo delle biblioteche personali. Ma non era un rozzo rimpiattino ideologico: era un incentivo ad aprire gli orizzonti, a confrontare tesi diverse, magari anche un tentativo di tirare fuori la cultura di ispirazione cattolica dall’emarginazione subculturale cui veniva effettivamente costretta dal conformismo imperante in quegli anni.
E se ti poteva interessare, la venivi a scoprire lentamente proprio al “San Martino”, dove sembrava che don Elio lasciasse apposta sopra quel grande tavolo, accanto a ogni tipo di bibbia interconfessionale, libri di Maritain, Gilson, Mounier, Bernanos e molti altri ancora perché li sbirciassi, e ti invogliassi, oltre che a leggerli, a seguire le conferenze in programma con professori universitari come Armando Rigobello, Mario Naldini, Aurelio Privitera, Cornelio Fabro e via dicendo.
Era questo il modo con il quale don Elio innescava con sapienza quel gioco tra cultura e religione, tra ragione e fede sullo schema dell’agostiniano credo ut intelligam, intelligo ut credam che finiva per costituire un tutt’uno, dalla cattedra del liceo alle conferenze del “San Martino” fino al pulpito, la domenica, nella “sua” sant’Ercolano (per lui luogo simbolo dell’incontro a Perugia tra la città dell’uomo e quella di Dio) e in quella chiesa dell’Università a proposito della quale si è sempre detto orgoglioso di avervi ripristinato il culto, dopo essere stata “massonizzata” – non mancava mai di sottolineare – nei tanti anni in cui era stata adibita ad aula magna dell’ateneo.
Questo don Elio diceva apertamente anche nella fase in cui un certo mondo cittadino, affascinato anch’esso dalla grande cultura e capendone in pieno la potenzialità dello stile, provava a blandirlo per trascinarlo dalla propria parte, equivocando un po’ troppo sulla sua effettivamente grande apertura mentale. Nell’incipiente clima di compromesso storico, un vivace giornale della sinistra (molto letto da quella radical-chic in rapida ascesa e ancora priva di Repubblica), nella pagina umbra gli aveva dedicato un brillante profilo, tratteggiandolo già nel titolo come “Il monsignore laico”, ben cogliendo – ma soltanto da un superficiale punto di vista essenzialmente estetico – il senso di modernità che infondeva anche il suo portamento, soprattutto grazie ai sartriani maglioni “dolce vita” e color panna che indossava sotto la giacca scura, in testa il borsalino che tendeva a coprire appena gli occhiali sottili, e tanto di sciarpa bianca al collo: una impeccabile mise, insomma, da rampante teologo sfornato dall’università di Friburgo al passo con i ritmi più sostenuti del rinnovamento conciliare.
Poteva esserci del vero in quel titolo, ma più in funzione delle attese di certi ambienti che nella sostanza. Mi sembra di ricordare, del resto, che in quel titolo non ci si ritrovasse: non c’è dubbio che fosse uno spirito libero e che, convintamente coinvolto dal concilio, non mancasse di criticare non pochi aspetti della chiesa ormai superati ma ancora persistenti: Ecclesia semper reformanda avrebbe ben potuto essere il motto – pur così “pericolosamente” luterano – del suo stemma se mai fosse diventato vescovo, come forse avrebbe meritato. Ma già allora, in piena sintonia con la visione montiniana di cui era impastato, aveva ben presente che le riforme di cui la chiesa necessitava urgentemente non collimavano certo con le sempre più diffuse aspettative secolarizzanti, e che aprirsi alla modernità e comprenderla – cosa che con le sue capacità intellettuali e la sua preparazione culturale sapeva fare come pochi altri – non significava certo assumerla come categoria universale.
Su questo, ed in una fase in cui anche in Umbria non pochi dei suoi confratelli uscivano dal recinto, non esitava a confermarsi fino in fondo prete col “colletto romano” e controcorrente; a partire proprio dal tema dell’ecumenismo (vocazione primaria della sua azione sacerdotale), che ha strenuamente tenuto distante, ad esempio, da ogni commistione con l’irenismo capitiniano entrato in voga proprio nell’Umbria di quegli anni. L’ecumenismo – non si stancava di insegnare e precisare in ogni occasione – era un fatto e un’esigenza di Chiesa, postulava la fede nella Chiesa. Di più: non si poteva parlare di ecumenismo né tra le altre religioni (con cui si doveva comunque dialogare soprattutto sui temi della pace e dei diritti umani), né tra le sette religiose ancorché di derivazione cristiana; esso poteva essere ricercato e conseguito soltanto tra le grandi confessioni cattolica, ortodossa, anglicana e protestante, ed in una prospettiva autenticamente “cattolica”, che recuperasse cioè tra le Chiese quell’universalità della Chiesa frantumatasi con i grandi scismi del medioevo e con la Riforma.
Queste erano le chiare e solide premesse – “paletti” che mai, in ogni caso, avrebbero dovuto trasformarsi in barriere interpersonali – dell’incessante lavoro di studio, discussione e confronto che si svolgeva nel centro ecumenico di via del Verzaro, dove comunque l’incontro tra persone con visioni diverse era il valore essenziale da coltivare e rinsaldare di settimana in settimana, intessendo un dialogo che, seduti intorno a quel massiccio tavolo ricoperto dalla rossa tovaglia di tela umbra, finiva per estendersi ai vari aspetti del mondo.
Era quello il cuore della “Città per il dialogo” (il vero sogno di don Elio fissato sul titolo del “bollettino” che riassumeva le attività del centro), quasi una libera università dove, guidati e coordinati dal logos del fondatore, due o tre generazioni hanno potuto praticare l’incontro tra ragione e fede, assumendo tra l’altro una salutare dose di anticorpi contro irrazionalità e fanatismi di diverso genere, già allora minacciosamente in avanzata anche in campo religioso.
Se con l’ostello del Centro internazionale per la gioventù monsignor Bromuri assolveva all’obbligo evangelico di dare accoglienza a chi chiedeva rifugio, con il centro “San Martino” metteva in atto un’altra opera a suo modo anch’essa di misericordia, dando da bere a chi era assetato non solo di credere, ma di capire approfonditamente cosa credere, e con questo acquisire anche senso e misura delle cose. L’essere stato un così sapiente, quanto discreto e affascinante formatore di coscienze ha conferito, poi, un sapore tutto particolare alla trentennale stagione nella quale don Elio, come direttore de La Voce, è diventato formatore anche di opinione pubblica. Non si spiega altrimenti la cattedrale zeppa di gente come fosse Natale, venuta a dirgli addio in un afoso pomeriggio di pieno agosto.