Il tributo a Cesare

“Io sono il Signore e non c’è alcun altro; fuori di me non c’è dio”, leggiamo nel libro di Isaia nel capitolo in cui viene presentata la figura di Ciro, un re straniero che è stato strumento del Signore per il ritorno in patria degli esiliati. E di sovranità di Dio e di potere politico ci istruisce la Parola di Dio in questa 29a domenica. Dopo aver ascoltato la serie delle “parabole della vigna”, seguono infatti quattro episodi nel Vangelo di Matteo caratterizzati dalla volontà degli avversari di Gesù di trovare il modo di farlo cadere in trappola, ma in tutti e quattro Gesù risulta avere la meglio tanto che, al termine del quarto è scritto: “nessuno osò più interrogarlo”. Il primo che ci viene proposto si apre con la notizia che i farisei, che hanno appena concluso di ascoltare le “parabole della vigna”, decidono di andarsene ma per organizzare un complotto e (letteralmente) “tendere un laccio” a Gesù “nei suoi discorsi”. Escogitano dunque di inviarGli il gruppo degli erodiani i quali, dopo una captatio benevolentiae (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio …), gli pongono la domanda: “è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. La scelta degli erodiani è stata fatta con cognizione di causa. Essi erano “devoti” di Erode Antipa, certamente pagavano le tasse, ed erano le persone più indicate per far giungere a Roma le voci ostili a Cesare. I farisei e gli erodiani perseguivano un comune interesse che era quello di possedere un proprio e glorioso re: per i farisei questo sarebbe dovuto essere il Messia, mentre per gli erodiani Erode, ma Erode indipendente dal potere di Roma. Considerando tutto ciò, la questione del pagamento delle tasse costituiva un acceso e intrigato dibattito soprattutto in conseguenza della rivolta portata avanti nel 6 d. C. da Giuda il Galileo, dopo la quale qualsiasi pretesto di non pagamento delle tasse veniva visto come un’istigazione all’insurrezione. La tassa (census) doveva essere obbligatoriamente pagata dai residenti della Giudea, dell’Idumea e della Samaria e consisteva nel versamento di una moneta specifica in cui era riportata l’immagine dell’imperatore. Qualora Gesù avesse risposto di non pagare, sarebbe stato esposto all’accusa di ribellione nei riguardi dell’impero; se avesse risposto di “sì” sarebbe andato incontro alla delusione dei suoi connazionali che lo avrebbero considerato un collaborazionista dei romani. Gesù non si lascia affatto intimorire e smaschera subito la farsa facendosi mostrare la moneta e manifestando così l’intenzione pretestuosa degli erodiani poiché, essendo in possesso della moneta, la loro volontà di pagare era già stabilita e la domanda non era originata da vero interesse, ma da “malizia”. Inoltre, consideriamo che dietro vi erano i farisei che, teologicamente parlando, non condividevano la politica di occupazione da parte dei romani perché l’unico ad avere la signoria sulla terra d’Israele era il Signore! A questo punto Gesù usa la tecnica della contro-domanda e, dirigendo la questione dall’aspetto teologico a quello pratico, mette i suoi interlocutori di fronte all’oggetto in causa: la moneta dell’epoca (coniata da Tiberio, 14-37 d. C.) recava sul dritto il volto dell’imperatore e in secondo piano quello di Livia (imperatrice madre) con l’iscrizione “Tiberius Caesar …” e sul rovescio la dicitura “Pontifex Maximus”. Cosicché alla sentenza “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, Gesù riconduce il messaggio dal pratico al teologico: a Cesare è dovuto ciò che nell’immediato è specificato, cioè il denaro, a Dio è dovuto tutto il resto perché, nel rispetto della Torah, a Dio si deve l’amore con “tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Non c’è nemmeno il pericolo dell’idolatria perché, anche se per gli ebrei vige il divieto di fare immagini, tuttavia l’imperatore non è Dio! C’è piuttosto un sano equilibrio perché a Cesare si devono i tributi necessari per il buon governo amministrativo, a Dio si deve tutto ciò che concerne la vita dell’essere umano, anima e corpo. Nell’agire del credente rientra anche l’essere cittadino di questo mondo e non sono due aspetti distinti, il cittadino e il credente, ma un tutt’uno. Il credente abita il mondo appunto da “credente”, consapevole che deve ben usare e rispettare e migliorare quanto è necessario per il suo e altrui fabbisogno tenendo fisso lo sguardo al fine ultimo che è la gloria di Dio. L’agire del credente deve allora essere integerrimo alla stessa maniera di come Paolo elogia i Tessalonicesi che vivono praticamente le 3 virtù teologali: “l’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza nel Signore”. Queste indicazioni aiutano il credente a discernere il confine entro il quale collaborare con il potere politico. Ma fin quando il credente deve rispetto e fiducia all’autorità civile? Fin quando quest’ultima si prefigge il bene dell’uomo! A Cesare spetta il denaro perché in esso vi è la sua immagine, ma a Dio si deve … l’uomo e l’uomo è “sacro” perché appartiene solo a Colui di cui è “immagine” (Gen 1,26)!

PRIMA LETTURA
Dal Libro di Isaia 45,1.4-6

SALMO RESPONSORIALE
Salmo 95

SECONDA LETTURA
I Lettera di Paolo ai Tessalonicesi 1,1-5b

Commento al Vangelo della XXIX Domenica del tempo ordinario – Anno A
Dal Vangelo di Matteo 22,15-21

 

 

 

AUTORE: Giuseppina Bruscolotti