Lavoro: per vivere, non per morire

Normalmente si dice che si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Come dire che il lavoro è sempre in funzione della vita delle persone, non in maniera da abbrutirle e tanto meno da sfiancarle, e ancora meno da farle ammalare o perfino ucciderle. Può succedere di trovare nello stesso giorno (il 18 luglio), sugli stessi giornali, un resoconto piuttosto ottimista dell’Inail, perché i morti sul lavoro sono diminuiti, e una pagina più in là la notizia che un operaio di 42 anni è stato ucciso nel suo primo giorno di lavoro. Era solo, con buona volontà e forse imperizia, certamente senza grande esperienza, e poi c’è sempre di mezzo il caso, la fatalità. Intanto quella fatalità colpisce la moglie, i figli, i compagni di lavoro, gli stessi imprenditori, che non hanno alcun “interesse” a creare delle vittime. Chi pensa il contrario, o non conosce la situazione o è in mala fede. La colpa però c’è, da parte di qualcuno, ed è la sottovalutazione del lavoro stesso nelle sue varie componenti. Il rapporto, infatti, che si instaura in una fabbrica è sempre molteplice e complesso, ed esige una grande preparazione e una lucida attenzione. Per quanto riguarda la preparazione, voglio sottolineare che per fare una qualsiasi attività “liberale”, tipo l’insegnamento, l’avvocatura, la musica, il giornalismo e così via, si devono fare anni di preparazione, ed è giusto che sia così. Spesso invece, per lavori di tipo manuale, nella estrema varietà delle occupazioni, i tempi di preparazione sono molto brevi, spesso approssimativi e limitati, anche se si ha a che fare con ambienti non familiari, macchine difficili da manovrare, compagni di lavoro, e altri fattori imprevedibili e con cui sapersi rapportare e collaborare. E sopra ogni altra considerazione, c’è da fare i conti con la persona, la persona dell’operaio che può essere stanco, distratto, depresso, disturbato, insomma non all’altezza della situazione e non abituato a dubitare di se stesso e delle proprie capacità di risposta agli imprevisti. Tutto ciò dovrebbe rendere tutti più attenti e rispettosi, e più disposti a investire nella formazione-lavoro. Oggi poi, con la crisi e la precarietà dei posti di lavoro, si è disposti ad accettare qualsiasi cosa pur di avere un salario. Ciò rende il lavoro ancora più rischioso. Nei giorni scorsi, l’11 luglio, abbiamo ricordato san Benedetto da Norcia, che ha inventato e reso famosa nel mondo la formula ora et labora, prega e lavora. Può non essere fuori luogo ricordare che ciò significa – al di là della traduzione letterale del detto benedettino – che il lavoro è un fatto non di mani soltanto, né di assicurazioni e prevenzioni tecniche (tutte cose necessarie), ma di anima, di spiritualità, cioè di riflessione, di amore, di umanizzazione, di valorizzazione, che non si esaurisce nella giusta mercede, pur sacrosanta e necessaria per una persona e una famiglia, che non si deve “vergognare” di esistere. E tutto ciò vale anche per lo straniero. Anche gli stranieri lavorano e, purtroppo, come nel recente, tragico caso di Umbertide, muoiono.

AUTORE: Elio Bromuri