L’obbedienza esigente

Quando un confratello viene nominato vescovo o un vescovo viene trasferito ad altra sede, provo sentimenti contrastanti. Da una parte ammiro il coraggio della disponibilità, dall’altra resto sgomento per le responsabilità che l’interessato dovrà assumersi. Analoghi sentimenti provo quando il cambio riguarda semplici presbiteri, o perché trasferiti ad altri incarichi o perché devono fare spazio a forze più giovani. Tutto questo, nella profonda convinzione che la forza della Chiesa sta proprio nell’esercizio sapiente e illuminato dell’autorità e nell’obbedienza pronta e docile di chi ha rinunciato a se stesso per essere totalmente del Signore. Ubbidire non è stato mai facile e oggi lo è ancora meno, perché talvolta è un dire sì senza capirne le ragioni, è un andare là – come diceva Papa Giovanni – dove non si era pensato di andare. Ugualmente è assai difficile l’esercizio dell’autorità, in un tempo in cui la Chiesa è chiamata a rivedere radicalmente la sua organizzazione, in cui i problemi sono superiori alle forze disponibili, con l’aggiunta di una crisi morale che sta scardinando i fondamenti della vita personale e sociale e con processi educativi sempre più difficili e ardui. Il binomio autorità-obbedienza è sempre accompagnato dalla croce: soffre chi comanda e soffre, in misura maggiore, chi ubbidisce. Il Vangelo in questo campo non usa mezzi termini: “A chi molto fu dato, molto più sarà richiesto” (Lc 12,48). Le virtù che vanno maggiormente coltivate sono la capacità di dialogo, l’umiltà, la vicendevole comprensione e la generosità. Del resto, in fondo, di nostro cosa abbiamo? La debolezza, l’incapacità, il peccato, l’egoismo e talvolta perfino un nascosto incosciente narcisismo. Nel binomio chi corre i maggiori pericoli è proprio colui che esercita l’autorità, poiché rischia di cadere nell’astuto tranello dei laudatores e degli opportunisti. C’erano ieri e ci sono oggi. Chi non ricorda le reazioni che ebbero perfino i dittatori comunisti di fronte al cosidetto “culto della personalità” e le derisioni cui andò incontro il modesto Strarace durante il Ventennio quando andava dietro al Duce per invitare tutti all’applauso obbligato? Questi meschini personaggi, destinati ad essere i primi a mutar bandiera non appena cambierà il vento, sono i più pericolosi collaboratori dell’autorità. Sant’Agostino scriveva: “Aiutateci con la vostra preghiera e la vostra obbedienza perché troviamo la nostra gioia non tanto nell’essere vostri capi quanto nell’esservi utili servitori” (Discorso 340). Cristo, che pur aveva il potere di comandare al vento e al mare, non ha voluto onori, ha scelto la via dell’annientamento; e quando salì a Gerusalemme, luogo del suo trofeo e del suo patibolo, pur di fronte all’entusiasmo dei bambini e dei semplici, preferì cavalcare un semplice asinello. Più sofferto, ma tutto sommato più semplice, è il ruolo di chi ubbidisce, poiché dà la prova tangibile di fare la sua parte anche con il cuore lacerato, di saper tacere anche quando gli altri gridano e complottano, di confidare in Dio senza aver la pretesa di averlo con sé o di possederlo. E bene ha fatto il Papa a proporre come modello sacerdotale il santo Curato d’Ars: quest’umile prete francese, umiliato, emarginato, nella sua fede profonda, nella sua unione a Cristo, commosse anche gli uomini più illustri del suo tempo. Cristo e la Chiesa hanno bisogno di uomini semplici, umili, capaci di annientarsi per far emergere unicamente l’azione profonda ed efficace dello Spirito santo. A Dio tutto, alle creature il semplice rispetto!

AUTORE: Sergio Goretti