Fede: piccola ma autentica

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXVII Domenica del tempo ordinario - anno C

La liturgia di questa domenica ruota attorno un nocciolo che ha a che fare strettamente con la fede. Nella prima lettura, divisa in due parti, il profeta Abacuc ne discorre in termini drammatici. La prima parte è una supplica accorata a Dio, che ha tanto l’aria di rimprovero; gli domanda come mai non intervenga di fronte a tanta violenza e a tanti scandali che si consumano nella città: “Fino a quando implorerò aiuto e non ascolti… e resti spettatore dell’oppressione?”. Nella seconda parte della lettura il Signore risponde: anzitutto raccomanda di fare bene attenzione alla risposta, anzi la metta in scritto, perché parla di qualcosa che certamente si realizzerà, nonostante i ritardi. La risposta da scrivere è questa: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”.

L’espressione non è di immediata comprensione per le nostre orecchie occidentali. L’ebraico sembra ancora più ostico, ma forse ci aiuta a capire il senso complessivo: “Ecco, è gonfia d’orgoglio, non è retta la sua coscienza (dell’empio), ma il giusto per la sua fedeltà vivrà”. Sono descritti in sostanza due stili di vita: uno, quello dell’orgoglioso che si gonfia, che presume della propria autosufficienza, ma alla fine perirà; l’altro, quello del giusto, che avrà vita da Dio, a causa della sua fedeltà, non ostante le apparenze contrarie. Questa Parola rimanda al capitolo 15 del libro della Genesi; come è noto, vi si narra del giusto Abramo, che non dubitò dell’affidabilità di Dio, ma credette alla promessa di avere una lunga discendenza, nonostante la sua tarda età.

La pagina evangelica inizia con la scena degli apostoli che chiedono a Gesù di accrescere in loro la fede. La richiesta era suggerita dai discorsi ascoltati poco prima, di fronte ai quali si sentirono evidentemente inadeguati: il discorso sullo scandalo e quello sul perdono. A proposito del primo, Gesù paradossalmente aveva detto: piuttosto che mettere inciampo sul cammino di un discepolo, è meglio andare ad affogarsi. Del perdono aveva detto che deve essere dato senza limiti o condizioni. I poveracci si accorsero onestamente che il loro attuale livello di fede non ne era all’altezza. Per questo chiesero: “Accresci in noi la fede”.

Inaspettatamente, Gesù rispose che ne sarebbe bastata pochissima, purché autentica. Autentica quanto un semino di senape, talmente piccolo da essere quasi invisibile a occhio nudo. Nonostante le dimensioni, è carico di verità; è autentico; non è finto. Tanto vero e tanto autentico da portare dentro di sé miliardi di informazioni che lo faranno diventare un albero. Ma se anziché seminare un seme vero, seminate qualcosa che gli somiglia, ma non lo è (un pezzetto di plastica o una pietruzza…), non vedrete mai una pianta. Così la fede. Se è autentica, è in grado di sradicare un albero e trapiantarlo in mare; ma se si tratta di qualcosa che ritieni sia fede, ma in realtà è solo un sentimento che le somiglia, non smuoverai nemmeno un capello.

Questa piccolissima parabola, dall’apparenza così innocua e vagamente consolatoria, ci interroga spietatamente. Essa mette in questione la qualità della fede di ciascuno di noi. Chissà se la mia fede, o la tua, o quella della vicina di banco, apparentemente così devota, o del tuo prete, è autentica o semplicemente lo sembra? “Dai frutti la riconoscerete” (Mt 7,20). San Paolo nella Lettera ai Galati li chiama “frutti dello Spirito”; e li enumera: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio de sé (5,22). Solo quando questi diventano visibili, si può cominciare a parlare di fede. Non prima. Non è dunque una questione di quantità, ma di qualità. L’ultima parte della lettura evangelica presenta ancora una breve parabola.

Gesù immagina un modesto contadino che ha un suo schiavo, la cui giornata lavorativa non termina nei campi, ma in casa, dove deve preparare la cena e servirla. Lo schiavo qui non fa altro che il proprio dovere, e il padrone non ha alcun motivo particolare per dimostrargli la sua gratitudine (era la mentalità del tempo). Come per ogni parabola, il significato va scoperto da ciascun ascoltatore, che è chiamato a domandarsi: che cosa sta dicendo Gesù alla mia vita? Suggerimento: Dio ha dato una prospettiva alla nostra vita, e delle indicazioni per vederla compiuta. Quando viviamo secondo la sua legge (“ciò che vi è stato ordinato”) non abbiamo alcun motivo di gloriarci, né alcun merito particolare da presentargli per rivendicarne il merito e il relativo compenso. Anche questo mette in discussione molte nostre attitudini, che concepiscono spesso il rapporto con Dio come un mercanteggiare i Suoi favori. Citare esempi sarebbe anche troppo facile. Dio è gratuità assoluta e totale. Nessuno di noi possiede qualcosa da dargli, per poi esigerne il contraccambio.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi