La “faccia dura” di Gesù

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XIII Domenica del tempo ordinario - anno C

Domenica scorsa abbiamo ascoltato, dal Vangelo secondo Luca, la narrazione della “confessione di Pietro” e il successivo intervento di Gesù, che ne precisava il senso e cominciava a parlare di sé come “Figlio dell’uomo” sofferente: vera svolta nella rivelazione della sua identità. Oggi ascoltiamo l’inizio della seconda parte del Vangelo: la salita della piccola carovana dalla Galilea a Gerusalemme. Le parole usate da Luca sono solenni e di grande pregnanza: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”.

La traduzione liturgica italiana ha cercato di rendere al meglio il senso del testo greco ma, come era inevitabile, non ha potuto riprodurne la forza originaria. L’espressione “essere elevato in alto” – in greco “elevazione” – ha un significato volutamente ambivalente: essere innalzato sulla croce, ed essere elevato alla gloria del Padre attraverso la risurrezione e l’ascensione. L’altra espressione: “prese la ferma decisione” traduce un testo che letteralmente dice: “indurì la sua faccia”. Come un atleta al massimo dello sforzo. L’espressione rimanda al libro del profeta Isaia, che al capitolo 50,7 coglie queste parole sulla bocca del Servo del Signore: “Per questo rendo la mia faccia dura come pietra”. Gesù sapeva bene che a Gerusalemme lo attendeva il rifiuto, la negazione e la morte.

Già all’inizio della sua vicenda pubblica era stato tentato di rifiutare quel difficile percorso (Lc 4,1-13). Probabilmente lo fu anche in questo momento decisivo. Per questo ebbe bisogno di “indurire la faccia”. Gli evangelisti più avanti noteranno che i discepoli, meno motivati di lui, lo seguivano impauriti. Con questo incipit l’evangelista sottolinea la libertà sovrana del Signore: quella decisione gli avrebbe sottratto consensi e popolarità; il gruppo dei seguaci si sarebbe ulteriormente assottigliato; i rimasti sarebbero stati presi da dubbi. Eppure scelse di compiere la misteriosa volontà del Padre.

La prima tappa del viaggio si concluse con un rifiuto; cosa ampiamente prevedibile, visti i pessimi rapporti che correvano fra giudei e samaritani. Dalla Galilea, d’altra parte, si poteva raggiungere Gerusalemme con soli di tre giorni di cammino attraversando la Samaria. I samaritani si rifiutarono di accoglierlo, perché “la sua faccia era rivolta verso Gerusalemme”. (È la terza volta che in queste prime righe risuona la parola “faccia”. Le prime generazioni cristiane scorgevano su quella Santa Faccia il riflesso delle sue vicende interiori).

I discepoli non sopportarono il rifiuto dei samaritani e chiesero vendetta. Due di loro, i più disinibiti, gli chiesero addirittura il permesso di invocare fulmini dal cielo. Ma Gesù li rimproverò aspramente, così come aveva fatto con Pietro qualche giorno prima: “Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). E si incamminarono verso un altro villaggio. Si compiva l’altra sua parola: “Se qualcuno non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi… quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra” (Mt 10,13.23).

Nella lunga marcia verso Gerusalemme accadranno molte cose, avverranno molti incontri; Luca ce ne parlerà nelle prossime liturgie domenicali, durante quest’estate. I primi tre incontri furono con altrettanti aspiranti seguaci. Il primo era un tipo generoso, ma anche un po’ illuso, che pensava di andare a spartirsi il potere nel nuovo regno che questo Messia avrebbe presto inaugurato. Gesù lo disilluse, facendogli presente che mostrava di non sapere dove stava andando il Figlio dell’uomo. Seguire il Signore non può essere l’impulso di una generosa iniziativa personale, ma solo la risposta a una chiamata divina.

Il secondo incontro fu con un tale che Gesù chiamò. Quello pose condizioni: “Permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Probabilmente non aveva il morto in casa, ma solo un padre vecchio, forse malato e prossimo a morire; se Gesù avesse avuto un po’ di pazienza, quel tale non avrebbe avuto problemi a seguirlo. La risposta di Gesù fu dura: non solo suo padre era vicino a morire, ma anche tutto il vecchio sistema e la vecchia religiosità. L’urgenza di annunziare la novità del Regno non consentiva di porre tempo in mezzo. Il terzo tipo sembrò chiedere una cosa ovvia: andare a prendere congedo dai suoi. Così del resto aveva fatto il profeta Eliseo, quando era stato chiamato da Elia a essere suo successore. Abbiamo ascoltato l’episodio nella prima lettura. Gesù percepì in questa “piccola” richiesta una sottile incertezza. L’annunciatore del Regno non può indugiare in festeggiamenti di addio, ma deve semplicemente andare.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi