Miracolo a Kabul

Intervista a suor Michela Dainese, delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore, che gestisce un centro educativo per bambini disabili mentali

A Kabul non ci sono solo le bombe. C’è anche chi si adopera nel silenzio per dare una mano dove può, dove c’è più bisogno di aiuto. Dal 2006 è nato un centro per bambini disabili mentali. È conosciuto come Pbk, Pro bambini di Kabul, realizzato in risposta ad un accorato appello lanciato da Giovanni Paolo II nel 2001, durante la notte di Natale: “Salvate i bambini di Kabul!”. A ricordarlo è suor Michela Dainese, delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, giunta a Perugia per portare la sua testimonianza nel corso della Veglia per le missioni svoltasi venerdì 22 ottobre scorso nella parrocchia dei Ss. Biagio e Savino. L’abbiamo incontrata presso l’istituto Donati – Ticchioni – Concetti di Perugia, dove c’è una comunità di Piccole Ancelle che gestisce una scuola dell’infanzia. Suor Michela è tornata da poco da Kabul, dove ha gestito insieme a padre Giacomo Alberto Rossini per tre anni il Centro educativo- assistenziale “Pro bambini di Kabul”. La sua è una delle 14 congregazioni religiose che hanno risposto all’appello del Papa. Appello raccolto in prima istanza da don Giancarlo Pravettoni, guanelliano, in prima linea nel soccorso dell’infanzia più povera, il quale ha chiesto alle diverse congregazioni di Roma di dare una mano. La Caritas italiana, già presente a Kabul, ha messo subito a disposizione della piccola comunità intercongregazionale la propria esperienza e conoscenza del territorio. “All’inizio – ricorda suor Michela – il contributo è stato finanziario, poi dal 2006 si è riusciti a realizzare questo centro che attualmente accoglie 32 bambini”. Bambini con difficoltà di apprendimento che, per i loro ritardi, non vengono accettati nelle sovraffollate classi della scuola pubblica, dove un’aula può arrivare a contenere anche sessanta bambini. Bambini messi al margine della società, anche dalle proprie famiglie, che li tiene segregati in casa. Anche i fratelli si vergognano di loro. “Ora le cose sono cambiate – prosegue suor Michela -: molti bambini hanno fatto enormi progressi, parlano, scrivono e una decina di loro nel 2008 sono stati reinseriti nella scuola pubblica, sei nel 2009 ed altri sei lo saranno l’anno prossimo. La soddisfazione più grande – ricorda – è stata quando siamo riusciti ad aiutare una bambina che, appena arrivata al Centro, non voleva parlare con nessuno. Se ne stava sempre ferma in un angolo, non accettava nessun approccio, si vestiva da maschio e non c’era modo di farle indossare la divisa della scuola. Solo dopo mesi, con molta pazienza, finalmente si è avvicinata alla maestre indossando addirittura la divisa”. I risultati ottenuti con questi bambini hanno stupito anche le autorità locali, che più volte si erano mostrate scettiche verso questo progetto: “Cosa pensate di ottenere da questi ragazzi?, mi dicevano – ricorda suor Michela. – Invece ora addirittura le scuole mandano i loro insegnanti per conoscere i nostri programmi”. Affiancata da tre religiose, due pakistane e un’indiana, suor Michela svolge la sua missione nel silenzio: “Siamo costrette a non utilizzare i nostri abiti – spiega – per il rischio di ritorsioni. I cattolici in Afghanistan non esistono. Non sanno che siamo delle religiose: ci vestiamo come normali donne afghane, non portiamo nessun segno religioso. L’unica chiesa presente in tutto il Paese, riconosciuta dal Governo afghano, è quella che si trova all’interno dell’ambasciata italiana, un po’ distante dal nostro centro, dove andiamo a seguire la messa. Qualche genitore ci chiede spiegazioni su chi siamo, perché ci dedichiamo ai loro figli, e rimangono stupiti che non siamo sposate. In qualche occasione abbiamo tentato di dare qualche spiegazione, ma gli afghani non hanno la minima idea di cosa sia la vita cristiana. E allora cerchiamo di portare loro il Vangelo non con le parole ma con i fatti”. Ma come si vive a Kabul? “Noi siamo abbastanza libere di muoverci, possiamo andare a fare la spesa, anche se ci spostiamo sempre con l’autista. Tre volte alla settimana andiamo a messa all’Ambasciata, che si tiene periodicamente in contatto con noi. Kabul è una città abbastanza sicura, ci sono guardie afghane ad ogni angolo. E poi ci sono i nostri militari italiani, dell’Aisaf, che ci telefonano spesso, ci vengono a trovare, ci informano di eventuali situazioni di rischio, ci portano sussidi didattici, cibo”.

AUTORE: Manuela Acito