Non indurci in disperazione

All’origine di certi fatti estremi di violenza contro se stessi o contro altri, anche contro persone care, persino figli innocenti, che troviamo nella cronaca quotidiana vi sono moltissime cause. Si è avuta notizia in quest’ultimo periodo anche di bambini uccisi da bambini. Una signora mi ha telefonato: dite qualcosa, fate qualcosa. E non è la prima volta. Al Signore si può chiedere di non indurci alla tentazione e di non abbandonarci quando questa si presenta. La tentazione più grave è quella della disperazione, che può diventare spinta alla violenza. Se uno riesce a pregare non è più disperato. Sente in qualche modo in se stesso un filo di speranza che, come spiraglio di luce dall’alto, lo porta a cercare una via d’uscita. Ma quanto sta succedendo induce a domandarsi chi e che cosa può indurre alla disperazione. La società, quando è così ingiusta da mettere una persona o una famiglia in una situazioni senza via d’uscita, come nell’ultimo caso in cui un uomo si è dato fuoco, è una società malata, in disfacimento. Non è possibile per nessuno vivere e sopravvivere senza vedere davanti a sé una via, o almeno una scorciatoia, un viottolo per andare avanti, dopo la perdita della casa, dopo la perdita del lavoro, dopo il fallimento di un amore. In una società normale non dovrebbero mancare strutture sociali, pubbliche e private, laiche ed ecclesiali, pronte a far fronte alle emergenze, come a quelle dei terremoti e delle alluvioni. Ci sono dei terremoti nascosti e diffusi tra le persone e le famiglie di cui nessuno si occupa. Si fa qualcosa per i tossicodipendenti, i barboni e va bene. Si offre un letto, un panino, una coperta, un pasto caldo. Non ci sono invece soluzioni per la gente di medio stato sociale che si trova improvvisamente di fronte a difficoltà che non riesce a superare. Si tratta spesso di persone di cui non si sospetta. E non è solo una questione economica. Di fronte ad una tragedia familiare si dice: era brava gente, tranquilla, non si sospettava di nulla. La disperazione può essere anche di natura patologica, sul piano psichico. Non possiamo tuttavia disconoscere possibili responsabilità: non avere dato peso alla sofferenza di una persona, al suo stato di abbattimento, più ancora non avere consapevolezza di averlo provocato, perché si è voluto umiliare, costringere, soffocare, dominare, togliendogli il sorriso, l’iniziativa, un minimo di libertà, il respiro, la dignità. Criterio di comportamento nelle relazioni interpersonali, familiari e collettive è di non indurre nessuno alla disperazione, non eccedere nella repressione anche quando è doverosa. Il discorso va fatto anche per le condizioni dei detenuti in certe carceri, dove avvengono numerosi suicidi. Nessuno deve essere indotto o ridotto ad avere disprezzo e vergogna per se stesso, a considerarsi inutile, ingombrante, abusivo in casa o nella società, uno che vive da parassita sul sudore altrui. Quante di queste espressioni si sentono spesso ripetere e quante volte si rimane allibiti che si abbia il coraggio di sbatterle in faccia ad una persona già di per sé provata. Per fortuna vi sono capacità di assorbimento e di tolleranza psicologica, vi sono difese e capacità reattive positive, secondo i casi. Ma vi sono anche quelli che soccombono o disperati con la maschera della serenità. Direbbe Paolo “senza Dio e senza speranza in questo mondo. Ma voi che credete non siete così”. Diciamo: “Voi non siate così”.

AUTORE: Elio Bromuri